domenica 26 agosto 2012

Stefano Fassina: «L’industria non va lasciata solo al mercato»


Dai guasti delle politiche liberiste si esce con un nuovo modello di sviluppo che guarda all’Europa e a produzioni innovative ed eco-compatibili.

 unita.it
stefano fassina testa 640 
«Non è la via maestra, ma è uno strumento che fa parte della cassetta degli attrezzi della politica industriale e va usato nell’ottica di un Green New Deal, un piano europeo di riconversione industriale ». Stefano Fassina, responsabile economico del Pd «condivide il sasso lanciato da Susanna Camusso» riguardo all’intervento statale per salvare settori e aziende in crisi e «apprezza » il dibattito aperto da l’Unità sull’intervento dello Stato nell’industria.


Fassina, in molti hanno gridato alla nazionalizzazione. Non la trova una proposta sorpassata? Da socialismo reale?
«Se fino a qualche anno fa il tema dell’intervento statale in economia era, specie in Italia, bandito, negli ultimi tempi abbiamo assistito alla nazionalizzazione delle banche in Inghilterra, patria del liberismo, ad Obama che ha salvato il settore automobilistico. Dunque è un tema attualissimo che è giusto affrontare proprio quando le politiche liberiste stanno dimostrando la loro dannosità e stiamo attraversando una lunga transizione da cui dovremo uscire con un nuovo modello di sviluppo. E la domanda che dobbiamo porre è: quale posizione deve avere l’Italia e l’Europa, ormai un unicum, in questa situazione? La risposta sta in parte nel programma Europa 2020 e, andando oltre, in vero e grande Green New Deal continentale che punti a riconvertire l’industria verso produzioni innovative, tecnologiche e ambientalmente compatibili».

Nel dibattito seguente Sapelli ha parlato di modello Eni, De Cecco di rilancio del pubblico. Lei con chi sta?

«Sono entrambi interventi condivisibili. Credo che l’importanza del dibattito che avete ospitato stia però nell’aver rilanciato il tema dell’economia reale, le cui condizioni sono drammatiche, e anche per operare un cambio di paradigma culturale davanti al tramonto della dottrina liberista puntando ad un nuovo modello di intervento pubblico».

Camusso però propone che lo Stato entri direttamente nel capitale delle aziende in crisi. L’Ilva, ad esempio, non è riconvertibile...

«Certo, non possiamo fare a meno dell’acciaio, della chimica di base. Si tratta però di capire come la tecnologia possa rendere compatibili le produzioni. E in questo senso non è più tempo di lasciare al solo mercato la soluzione di questi problemi».

È vero però che ci sono interi settori, ad esempio il trasporto pubblico, che stanno sparendo dall’orizzonte industriale italiano. Per salvarli lo Stato deve comprare quote delle aziende in difficoltà?

«Si tratta di fare scelte coraggiose e di investire nella mobilità sostenibile. Per esempio, ha senso che Ansaldo Breda, Ferrovie dello Stato siano aiutate a investire in questo senso, aprendo il progetto anche ad aziende estere però. In un settore come questo l’intervento pubblico può essere utile».

Camusso entra nello specifico: propone che sia la Cassa depositi e prestiti, che già detiene le quote statali delle aziende miste, a comprare quote di aziende in crisi. Per poi rivenderle quando saranno risanate.

«Io credo che questa sia una possibilità, uno strumento nella cassetta degli attrezzi della politica industriale. Ma le singole situazioni vanno valutate nella loro specificità. L’intervento della Cassa depositi e prestiti non può essere generalizzato: vanno analizzati i settori industriali e le prospettive delle singole aziende. Il decreto Sviluppo finanzia un fondo della Cpd per valorizzare quote della aziende pubbliche locali, ma a solo scopo finanziario per ridurre il debito. Invece servirebbe una politica industriale per finanziare e favorire le aggregazioni fra le municipalizzate dei settori dei beni comuni, dall’acqua all’energia agli stessi trasporti. In questo modo le aziende avrebbero dimensioni tali da poter competere su base europea e creare lavoro e ricchezza».

La cassetta degli attrezzi avrà molti strumenti, però ha pochi soldi...

«Proprio per questo vanno fatte scelte precise e lungimiranti. Non si può far tutto, bisogna decidere su cosa puntare e per questo bisogna rilanciare il programma Italia 2015 lanciato da Bersani nel 2007. Lì l’intervento di politica industriale si dipanava in tre direzioni: sostegno alla domanda tramite la detassazione del 55% per ristrutturazioni eco-compatibili, motori elettrici e risparmio energetico; sul lato dell’offerta con il credito d’imposta per finanziare progetti industriali innovativi e interventi per la riqualificazione pubblica, come quelli messi a punto nei giorni scorsi dal ministro Barca per le scuole. La poca attenzione del governo Monti alla politica industriale poi ci porta a spingere ad un ottica europea nella quale i progetti di questo Green New Deal vanno finanziati con Project bond europei».

Una proposta come quella di Camusso potrebbe essere appoggiata da una futura maggioranza di cui faccia parte l’Udc?

«Non sono in grado di prevederlo. Faccio però notare che la Carta d’intenti presentata da Bersani ha dei riferimenti importanti sull’importanza della politica industriale. Credo che attorno all’obiettivo di mantenere l’Italia come secondo Paese manifatturiero d’Europa si possa costruire una coalizione molto ampia di forze sociali, politiche e imprenditoriali. Si tratta quindi, insisto, più di discutere pragmaticamente rispetto agli obiettivi che rispetto agli strumenti per raggiungerli».

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