mercoledì 29 maggio 2013

Software libero nella PA, adozione a rischio

Divisioni sull'interpretazione di una norma rischiano di bloccare chissà per quanto l'ingresso dell'open source nella pubblica amministrazione.

La questione dell'adozione del software libero nella pubblica amministrazione è annosa: sono anni che se ne parla ma i progressi ancora non si vedono.
Ora, poi, la situazione pare peggiorata: il tavolo di lavoro costituito per discutere proprio di questo tema presso l'Agenzia per l'Italia digitale è diviso sull'interpretazione di una norma, e ciò rischia di condurre a uno stallo che blocchi - per quanto tempo non si sa - i lavori, come sottolinea l'avvocato Ernesto Belisario su Agenda Digitale, sito diretto da Gildo Campesato e il cui responsabile editoriale èAlessandro Longo.
Negli anni, si sono susseguiti numerosi progetti di legge statali e le leggi regionali in materia, gruppi di lavoro e – addirittura – una Commissione costituita dall’allora ministro per l'Innovazione e le TecnologieLucio Stanca e guidata da un’illustre personalità (il prof.Angelo Raffaele Meo).
Nella sua versione originaria, ilCodice dell'Amministrazione Digitale (CAD) (D. Lgs. n. 82/2005) prevedeva una disciplina specifica in materia di acquisizione di programmi informatici.
L’articolo 68, infatti, disponeva che le Amministrazioni procedessero ad acquisire i software necessari allo svolgimento della propria attività dopo aver effettuato una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le differenti soluzioni.

La norma era chiara: la valutazione su caratteristiche e prezzo doveva essere fatta di volta in volta, in considerazione della situazione di partenza e delle esigenze di ogni ufficio, soppesandone la convenienza anche in termini economici, al fine di evitare inutili sprechi di denaro pubblico.
Poi detto articolo venne modificato, introducendo un criterio di preferenzialità per il software libero o a sorgente aperto,oltre che per il riuso. La parte interessante si trova nel comma 1-ter, al punto in cui si dice che «ove dalla valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico, secondo i criteri di cui al comma 1-bis, risulti motivatamente l’impossibilità di accedere a soluzioni già disponibili all’interno della pubblica amministrazione, o a software liberi o a codici sorgente aperto, adeguati alle esigenze da soddisfare, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso».
È proprio questo comma ad aver creato le divisioni all'interno del tavolo di lavoro incaricato dall'Agenzia per l'Italia Digitale di elaborare le linee guida da seguire per la valutazione comparativa.

Infatti, le interpretazioni di questo comma sono due.
Da un lato vi è chi ritiene il CAD abbia espresso una preferenza per le soluzioni di riuso e di software libero o a sorgente aperto, demandando all'Agenzia il compito di stabilire criteri e metodi per decidere, all'interno della valutazione comparativa di cui all'articolo 68 comma 1 bis, quando l'adozione tali soluzioni espressamente menzionate siano "impossibili".
Dall'altro vi è chi pensa che il CAD non esprima alcuna preferenza e che tutte le soluzioni menzionate dall'articolo 68 comma 1 debbano essere valutate in base al semplice valore tecnico/economico.
Francamente, la seconda interpretazione appare sorprendente e, oltre a non trovare rispondenza nel dettato normativo, non tiene conto delle motivazioni delle modifiche legislative. Certo, si può discutere se si tratti della soluzione ideale, ma non è possibile cambiaria in via interpretativa.
Ma la cosa più grave è che la difformità di opinioni (cosa tutto sommato frequente nei gruppi di lavoro) rischia di creare una impasse nei lavori del gruppo e, soprattutto, non viene data risposta alle esigenze degli Enti (che hanno bisogno di meno discussioni teoriche e di più spunti pratici).



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