Voglio dirlo subito, nel modo più chiaro: sulla natura e sullo svolgimento della manifestazione del 19 ottobre abbiamo sbagliato analisi. Non è poco per una forza politica che si propone il cambiamento a partire dai processi reali che toccano la società nei suoi snodi più dolenti, più conflittuali, più esposti al rimescolamento sociale prodotto dalla crisi. Se c’è una cosa che ho imparato nella mia esperienza è che quando si sbaglia nell’analisi si finisce per sbagliare anche nel comportamento politico.
E’ inevitabile, si sconta un ritardo, si marca una distanza, e non si mette bene a fuoco il merito della questione. Proprio per questo sento il bisogno di tornarci sopra. Senza strumentalismi, né indulgenze, bensì per un esercizio che avverto utile prima di tutto per me, per noi, per le responsabilità che ho e che abbiamo nella fatica e nell’impegno di contribuire a costruire una sinistra capace di assolvere una funzione in Italia ed in Europa. Ci muoviamo dentro il complicato scenario di una politica messa all’angolo, costretta a percorrere strade tutte in salita e gli errori sono parte del gioco. Ma tacerli, o rimuoverli, non spiana la nostra strada. Penso che ci siamo accostati a quella manifestazione, al popolo che essa rappresenta, alle istanze che solleva e ci indica, incorrendo in due errori diversi tra loro e insieme però speculari. Il primo riguarda la comunicazione. Ed è un risvolto tutt’altro che secondario, dal momento che sempre di più essa finisce per dare della politica che racconta una rappresentazione capace di formare immediatamente opinione, senso comune, decidendone spesso il percorso, se non il destino. Tolte allora rare eccezioni che hanno saputo e voluto entrare nel vivo dei contenuti e dell’organizzazione di un appuntamento così carico di risvolti, gran parte del sistema mediatico ha viceversa fornito, sin dall’inizio, una lettura a senso unico, viziata dall’esclusivo punto di vista dell’ordine pubblico e della sicurezza. Abbiamo seguito tutti il crescendo di notizie e di informazioni tese ad accreditare l’idea che i manifestanti sarebbero stati pochi e però violenti. “Livello di pericolo 8 su 10”, dicevano le previsioni della cosiddetta intelligenge trasmesse alle forze dell’ordine, lasciando immaginare giornate cariche di tensione e di scontri in una città assediata e messa in ginocchio. I manifestanti sono alla fine risultati dieci volte tanto le stime preventivate (o auspicate?) dai quei media che dettano la linea e chi si era aggregato con l’intenzione di usare la violenza come forma di lotta e di protesta è stato prontamente isolato dagli organizzatori. Questo è un fatto, ed è un fatto così pesante che impone una riflessione e un ripensamento, prima di tutto a chi ha la responsabilità di produrre informazione. Ma anche a noi, alla politica che finisce per subire troppo spesso il condizionamento di un sistema che fabbrica opinioni, e opinioni precostituite e di parte, più di quanto non renda conto della realtà per come essa accade. Ed è appunto su questo preciso snodo critico che si colloca l’altro nostro errore, quello di non aver saputo cogliere la vera natura della manifestazione, la carica sociale che esprimeva, la domanda di cambiamento che poneva e che continuerà a porre dentro il tunnel della crisi. Come in un caleidoscopio che rifrange le diverse figure sociali, e umane, della crisi, la manifestazione ha messo insieme la molteplicità dei soggetti indeboliti e mortificati dalle politiche di austerità che i diversi governi italiani hanno applicato in questi anni, sotto dettatura europea, senza vera soluzione di continuità. Dalla colpevole negazione della crisi di Berlusconi e Tremonti, alla tecnica smantellatrice di diritti e di welfare di Monti e Fornero, sino al paludoso galleggiamento delle larghe intese di oggi di Letta e Alfano. Certo ognuno col proprio differente stile, ma con esito identico, se stiamo ai risultati. Deposte le lenti deformanti che ci fornivano immagini di una partita urbana giocata tra rivoltosi e forze dell’ordine, si è dischiusa davanti a noi la natura vera di quella manifestazione. Essa ha posto con radicalità, con intelligenza, con pratiche e linguaggi inediti, innanzitutto una domanda. Cos’è diventato oggi il diritto del singolo, come il diritto di una comunità? Rispetto all’abitare una casa, al risiedere e al decidere nel proprio territorio, allo studiare e formarsi, rispetto al lavoro sottopagato, precario, cos’è e dov’è il diritto di un licenziato dall’oggi al domani. Dentro quella domanda confluiscono e si saldano diversi soggetti e diventano corpi vivi della parte ormai socialmente maggioritaria del nostro paese. Famiglie dove il lavoro si perde e lo sfratto incombe, famiglie alle prese con i servizi meno efficienti e le bollette e i ticket sanitari più cari d’Europa, giovani cui viene negato il diritto minimo alla formazione, pensionati impoveriti dagli effetti di quel che il lessico governativo chiama ancora con il beffardo nome di “riforma”, migranti che producono ricchezza e in cambio ricevono inaccoglienza, comitati di territorio posti a difesa del valore dei beni comuni e del riuso sociale di beni e di edifici sottratti al patrimonio pubblico e svenduti ai privati attraverso il mercato immobiliare e speculativo. Quella che emerge è la geografia sociale e territoriale che va da nord a sud dell’Italia, da una all’altra generazione, dal ceto medio agli strati più popolari. Quella che emerge è la storia politica di questa fallimentare risposta alla crisi costruita sulle ricette dell’austerità di marca finanziaria ed economica europea e di subalternità politica dei governi. Come possiamo pensare, come possiamo costruire l’alternativa se siamo distanti da quella domanda? Lo chiedo prima di tutto per la mia parte, lo chiedo a noi stessi alle prese con un congresso che su questo dovrà interrogarsi a fondo. Non si tratta di dare rappresentanza politica a un movimento variegato, di inglobarlo o blandirlo. Sarebbe un altro errore, che ci riporterebbe indietro nel tempo. Si tratta per noi di stare dentro quella domanda, dentro la sua natura sociale e conflittuale con la risposta fin qui data alla crisi, perché lì è gran parte del nostro terreno di costruzione di una politica di alternativa. Se la nostra aspirazione ad essere quella sinistra che coniuga l’alternativa con il governo del Paese ha il senso e l’urgenza che noi pensiamo, fuori da ogni minoritarismo, allora con quelle istanze ci dobbiamo misurare concretamente, a partire dalle reciproche autonomie. Mi chiedo se lo stesso interrogativo non riguardi anche il partito democratico e fino a che punto esso può eluderlo galleggiando nel vuoto delle larghe intese. Come senz’altro riguarda il sindacato, la sua determinazione oggi così debole, così incerta, nell’incanalare protesta e dolore sociale verso un conflitto democratico nel nome dell’estensione dei diritti sempre più negati. Quella manifestazione serve a dirci che esiste una potenzialità. Non possiamo girare lo sguardo altrove.
Ciccio Ferrara, coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia Libertà.
Articolo pubblicato su il manifesto di sabato 26 ottobre 2013