giovedì 30 gennaio 2014

Electrolux, la lotta di classe asimmetrica.



È vero che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, ma la scorciatoia escogitata dalla multinazionale svedese — tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti — sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti.

di Gad Lerner, da Repubblica
Nella lotta di classe asimmetrica scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani, e inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro; azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera.

Il sacro principio della libera concorrenza, dispiegato senza regole su un orizzonte mondiale, anela a svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. In materia di retribuzioni prevalgono le tariffe di volta in volta indicate come riferimento là dove conviene; e pazienza se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà. Prendere o lasciare. Il governo, i sindacati e la politica sono chiamati solo a una presa d’atto subalterna. A disarmarli è la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore che prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro. È così che la lotta di classe diviene asimmetrica e il lavoro, reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà (vedi Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, editore Derive Approdi).

Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano. Migliaia di aziende in difficoltà seguirebbero l’esempio del battistrada svedese, generando un’imponente decurtazione di reddito a danno di lavoratori che già percepiscono salari al di sotto della media europea.

È vero infatti che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, ma la scorciatoia escogitata — tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti — sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti. In questa drammatica circostanza, il riflesso ideologico anti-statalista può giocare brutti scherzi: basti vedere Beppe Grillo che ieri, pur di prendersela con lo «Stato-pappone», ha irriso l’angoscia dei lavoratori («lacrime di coccodrillo») e, adoperando un linguaggio tipicamente reazionario, ha parlato di «canea dei sindacati».

Lo stesso Partito Democratico di Matteo Renzi è percorso da una contraddizione che al momento sembra ostacolarne un’azione efficace. Aiuta poco il Jobs Act che si voleva sfoderare in campagna elettorale, perché nulla dice sul bivio cui siamo giunti: cosa deve rispondere, il governo, a una multinazionale che per restare nel nostro paese pretende la sospensione del contratto nazionale e dei patti integrativi vigenti? La richiesta brutale dell’Electrolux suscita reazioni opposte se la si guarda benevolmente dalla city di Londra, come il finanziere renziano Davide Serra che definisce «razionale» lo scambio fra decurtazioni salariali e salvaguardia occupazionale; o viceversa se la si guarda dal Friuli condannato a perdere 1.100 posti di lavoro, come tocca all’altrettanto renziana Debora Serracchiani, schierata con i “suoi” operai di Pordenone.

Il segretario Renzi, distratto dal braccio di ferro sulla legge elettorale, non prende ancora partito. E forse non si rende conto che il dilemma degli operai polacchi d’Italia, sbattuto in faccia alla politica, non è di quelli aggirabili con dei ghirigori verbali. Al contrario, è la priorità delle priorità.

Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono labouring poor: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Tale condizione verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari. Essi giungerebbero a suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente già in atto da anni in tutto l’occidente. Ne sono talmente consapevoli il presidente Obama negli Usa e i partner della grosse koalition in Germania, da avere scelto di innalzare per legge il salario minimo orario nei loro paesi. Un parziale antidoto alla diffusione della povertà fra i lavoratori dipendenti.

Se il governo e le associazioni imprenditoriali del nostro paese dovessero subire il ricatto della multinazionale svedese che chiede loro di agire in senso inverso, le conseguenze sarebbero gravi. Disperazione crescente, contrapposizioni territoriali (vedi le reciproche accuse fra Serracchiani e Zanonato), contagiosa demagogia autarchica. La lotta di classe asimmetrica produce solo declassati e secerne rancore. Sottoscrivere oggi un taglio dei salari significa mettere a repentaglio una già fragile democrazia.

Nessun commento:

Posta un commento