giovedì 23 gennaio 2014

Finanza in Brianza

“Connecticut o Ornate visti come luogo immaginario sono la stessa cosa”. Paolo Virzì
21 / 1 / 2014

Fatta velocemente piazza pulita della polemica spazzatura scatenata - come si conviene senza aver visto il film - da parte dei più impavidi difensori dell’Orgoglio Padano, primo tra tutti l’assessore al turismo e allo sport della Provincia di Monza e Brianza Andrea Monti (con delega a tempo libero, caccia e pesca, autodromo, sicurezza, polizia locale, protezione civile – si capisce come non abbia tempo per andare al cinema) relativamente all’ultimo lavoro di Paolo Virzì Il capitale umano, tocca confrontarsi con gli umori di quelli che il film invece hanno avuto la bontà di vederlo. Trascinato in questa agorà da uno dei nostri più illuminati redattori (che si cela maldestramente dietro la sigla gmdp) provo a mettere in evidenza il pensiero di due opposti schieramenti, portatori entrambi tuttavia di solide e condivisibili ragioni.

Perché sì. Virzì si avventura per la prima volta fuori dai territori a lui più congeniali, sia nel senso geografico del termine, sia in quello relativo alla materia di cui sono fatti i suoi film. Costitutivi di una carriera ormai ventennale che ha l’indubitabile merito di avere rinfrescato (non sempre con la stessa fortuna) le coordinate della commedia all’italiana. Per farlo prende lo spunto da un romanzo di Stephen Amidon trasferendo l’azione dal Connecticut in Brianza. Incardinando subito l’azione a un risvolto noir per poi sviluppare la narrazione in capitoli che descrivono la medesima sequenza di avvenimenti da diversa angolazione, facendo ruotare ogni capitolo di volta in volta attorno a un diverso personaggio. Difficile non avvertire la lezione di Altman nella scelta di questa strategia narrativa. Da un incidente notturno su una strada ghiacciata la sua camera si sposta attraverso campi da tennis, piscine, ville con scalinate hollywoodiane, interni griffati, feste esclusive, automobili con autista. Attraverso tutti i luoghi topici di una ricchezza legata al trionfo del capitale finanziario, declinato nella sua dimensione più cinica e provinciale. E’ una camera a mano molto mobile, a tratti nervosa, che allinea velocemente tutti i caratteri del racconto: l’immobiliarista all’inseguimento del salto di qualità, la moglie primipara più che attempata, la figlia in cerca di definizione della propria identità, il finanziere potente e senza scrupoli, la moglie moderatamente psicopatica, il figlio inutile già sulla strada dell’alcolismo, il giovane borderliner artista inespresso, l’intellettuale del teatro sfigato e meschino, il poliziotto sospeso tra carognaggine e umanità, tutta la fauna sociale di contorno ritratta senza mai arrivare alla caricatura. Ne esce un racconto morale connotato in secondo piano da una trama gialla, niente affatto banale: Virzì riesce a evitare gli stereotipi più scontati e i trabocchetti del grottesco offrendo uno sguardo verosimile sulla consistenza di certe nicchie territoriali del nostro paese, corroborate da vent’anni di berlusconismo e di leghismo. Lo fa con ritmo preciso e buona scansione narrativa, chiedendo e ottenendo dai suoi attori la massima adesione a una cifra realistica ed edificante. Chi vede nel personaggio di Bentivoglio un eccesso di macchiettismo vada a farsi un giro a ora di spritz per i lounge bar del varesotto o provi a immaginarsi com’era Maroni da giovane.
Perché no. Scegliendo di seguire la lezione altmaniana Virzì commette un peccato niente affatto veniale. Apre il suo film con l’incidente stradale che occorre a un ciclista, di ritorno verso casa dopo aver svolto il suo lavoro di cameriere a una festa che vedremo riproposta in ogni capitolo e dopo essere stato strapazzato dal suo capo (nero – solo questo dettaglio avrebbe meritato l’adozione di un ulteriore capitolo, ma lasciamo correre). Veniamo informati sul decorso ospedaliero, vediamo per un attimo la moglie (o la sorella?) e basta. Nessun capitolo gli viene dedicato pur essendo lui a dare il titolo al film. Ciò costituisce un affronto grave nei confronti della determinazione a filtrare il racconto cinematografico con l’occhio della valutazione politica: questa mancanza finisce col minare l’intera pretesa di conferimento al racconto di una sua qualità morale. All’unica vera vittima di tutta la narrazione non viene concesso lo spazio che viene concesso a tutti gli altri personaggi chiave: viene ridotto a un pretesto, a un McGuffin, come avrebbe detto il grande Hitch. Della serie: la classe operaia non solo non va in paradiso, ma neppure in scena. A questa omissione decisiva si somma l’ambiguità che grava sulla figlia apparentemente sana dell’immobiliarista in arrampicata, cui il regista consegna l’unico sguardo di speranza: tanto brava, carina e “diversa” quanto renitente alla resa pubblica della verità circa l’effettiva responsabilità dell’incidente. Il reato sarebbe quello di favoreggiamento. Si aggiunga che qualche snodo narrativo è risolto in modo fin troppo facile e ancora che stride in maniera inspiegabile il fatto che l’unico personaggio indubbiamente positivo incarnato dalla psicologa Asl Golino, dolce e sensibile, abbia sposato una testa di cazzo come l’immobiliarista Bentivoglio.
P.S. Completezza dell’informazione. All’assessore Monti Virzì ha così replicato: “in effetti nel film c’è un grave errore: un assessore leghista troppo composto rispetto alla sguaiataggine di questo Andrea Monti, realtà più grottesca”.
P.P.S. Per quanto mi riguarda il favoreggiamento non è neanche un reato.

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