venerdì 17 gennaio 2014

Marijuana in corsia: l'alternativa concreta


andrea carrozzini

Sono di questi giorni le notizie, che si rincorrono rapide fra media e dibattito in rete, di proposte istituzionali importanti verso la “legalizzazione terapeutica” della cannabis [..] (vedi il provvedimento che porta come prima firma quella del parlamentare democratico e presidente dell'associazione "A Buon Diritto" Luigi Manconi), ed il suo utilizzo in ambito sanitario. Ma come comincia questo percorso, contraddittorio nei termini della pratica giuridica e che si sta ponendo in ogni angolo del mondo, che riconosce in questa pianta un possibile uso farmacologico? Questa non è la domanda giusta da porsi, a mio modo di vedere la questione; dovremmo piuttosto chiederci: quando è stato interrotto, ostacolato ed oltraggiato il processo di ricerca scientifica? Come e perchè sono stati posti tanti freni e restrizioni all'utilizzo di una sostanza che era già nel prontuario medico in epoche lontane? A quali scenari ha portato il proibizionismo, e quali debiti scontiamo attualmente? Ancora una volta, la risposta è da indagare nell'economia e nella ricerca di profitto, ed il punto di vista da adottare per comprenderne i punti di forza deve essere il più “laico” possibile.

Risale agli anni'30 l'inizio del proibizionismo sulla cannabis ed i suoi derivati, grazie anche alle pressioni delle lobby del cotone e dei combustibili, preoccupati dell'utilizzo commerciale della pianta come tessuto e fonte di energia. Cominciò la caccia alle streghe, additando a produttori e consumatori di marijuana (termine coniato negli USA di quegli anni, in senso dispregiativo, riprendendo la pronuncia messicana) i più efferati delitti e colpe del decadimento della società, corrotta negli usi e nei costumi da sostanze illecite. Debito “etico” che la cannabis si porterà dietro, nel più profondo oscurantismo scientifico, culturale e giuridico fino ai giorni nostri.
Solo a metà degli anni '40 riprese la ricerca sulla marijuana, provando a rompere i tabù imposti dai governi su utilizzo e sperimentazione della stessa. Un percorso che continuava però a trovare l'ostacolo della legge.Oggi, grazie alla perseveranza delle associazioni – per la maggioranza composte da persone con patologie trattabili con cannabinoidi – dei movimenti, di medici pro-cannabis, di scienziati e ricercatori e del loro tempo prezioso utilizzato per sfaldare un mito granitico su danni da abuso e ripercussioni sociali criminogene, gli studi scientifici sugli effetti benefici di questa sostanza continuano a confermare. Risalgono infatti ai primi anni del nuovo millennio le conferme ufficiali sul trattamento di dolore cronico, a carattere neuropatico e spastico, con terapia a base di cannabinoidi (per intenderci, la terapia prevede l'utilizzo della sostanza come infiorescenza, e quindi allo stadio grezzo, oppure a stadi di lavorazione e raffinazione più avanzati, come infusioni o pastiglie: cambia la modalità di assunzione, i benefici restano sostanzialmente invariati) e nella lotta all'anoressia, alla nausea e al vomito. Tutti casi che già nell'antico impero cinese, o nel sudamerica post-Colombo, o in Nepal e India venivamo ampiamente trattati con questo tipo di terapia.
Già da molto tempo addietro, pur senza le dovute sperimentazioni biomolecolari, si sapeva che il nostro organismo è dotato di molteplici recettori per il delta9-THC, il principio attivo derivante dalla canapa, situati in molti organi del corpo, molti dei quali nel cervello. L'attivazione di questi recettori grazie al principio attivo od a suoi analoghi prodotti nel nostro corpo determina effetti a cascata intracellulari coordinati ed importanti: per esempio attiva lo stimolo della fame anche in persone dove questo viene soppresso, sia psicologicamente come nel caso degli anoressici, sia farmacologicamente come nei moltissimi casi di chemioterapia. È infatti in via di sperimentazione clinica (ultima fase della sperimentazione di un farmaco, prima della distribuzione commerciale) l'utilizzo combinato di cannabinoidi e antitumorali per controllare e ridurre l'espansione della massa neoplastica: recenti studi in vivo su cavie da laboratorio testimoniano la regressione della neoplasia in oltre 80% dei casi in tempi molto brevi: pare infatti che il recettore, una volta stimolato, impedisca alla cellula malata di continuare la riproduzione incontrollata ed alla massa tumorale di generare i nuovi vasi sanguigni necessari a procacciare i nutrienti, e crescere.
Recenti novità testimoniano numerosi successi nei trattamenti di altre patologie non meno rilevanti dal punto di vista sanitario, sia per la progressione ingravescente della malattia, sia per i costi sanitari sostenuti nell'utilizzo di farmaci convenzionali: asma e glaucoma rientrano infatti a pieno titolo fra le patologie trattabili con cannabinoidi, per ridurne gli effetti destituenti; in via di sperimentazione sono anche i farmaci cannabinoidi contro l'infiammazione, ipotesi fortemente accreditata empiricamente fra medici e pazienti, e confermata dalla letteratura scientifica, ma che ancora non ha dimostrato al 100% la veridicità della tesi. Nel complesso, gli ultimi 20 anni di sperimentazione clinica hanno visto nella marijuana un'attrice importantissima nella comprensione di meccanismi tumorali, infiammatori, psicologici e comportamentali: anche in ambito psichiatrico, solo di recente è stata provata la correlazione pressochè assente tra l'insorgenza di psicosi in soggetti predisposti e l'uso cronico di cannabinoidi a scopo ricreativo; muro dopo muro, vengono abbattuti tutti i clichè che hanno fatto da padrone nel sentore comune quando si parlava di “marja”.
E' bene non dimenticare mai che quando si parla di marijuana terapeutica, o di terapie nosocomiali in generale, si parla anche di costi sanitari. Pensiamoci un attimo insieme: quali potrebbero essere i vantaggi economici rispetto ad altri farmaci? Notevoli e molteplici. Pensiamo innanzitutto ai ridottissimi costi del mantenere e curare una pianta(gione) di canapa, pianta che già selvaticamente attecchisce in ogni parte del territorio nazionale: si eliminerebbero, all'utilizzo grezzo della sostanza, tutti i costi extra derivanti dalla creazione di un farmaco (mantenimento di laboratori, pagamento delle royalties per studiare i brevetti, acquisto e dosaggio di eccipienti, pubblicità, commercializzazione e trasporto dall'estero); si ridurrebbero l'insorgenza e la frequenza degli effetti collaterali correlati all'utilizzo dei farmaci che si consumano come caramelle ai giorni nostri, fra oki come rimedio ad ogni male e la tachipirina appena la temperatura supera i 37°C; si garantirebbe serenità nei pazienti, che non vengono più visti come dei tossicodipendenti, e nei medici spesso etichettati come pusher da media e istituzioni.
Fa riflettere allora quanto è capitato a Fabrizio Cinquini, medico toscano che, dopo aver contratto l'epatite C mentre operava d'urgenza, ha deciso di sperimentare su se stesso una nuova terapia a base di olio di semi di canapa, ricco di agenti antiossidanti, antinfiammatori e aminoacidi essenziali, insoddisfatto e depauperato dalle terapie chemioterapiche convenzionali: egli arrivò a dei risultati stupefacenti, riprendendo peso e voglia di vivere nell'arco di pochi mesi, tornando a lavoro e battendosi per far studiare ed applicare i suoi rimedi. Il risultato è stato l'arresto del medico per possesso di piante nel suo giardino, ad oggi agli arresti domiciliari in attesa di processo, rischiando 20 anni di galera. E non è l'unico caso, purtroppo, di ingerenza da parte della magistratura verso la ricerca scientifica e le sue applicazioni: in Italia, infatti, reperire i cannabinoidi una volta impostata la terapia con regolare ricetta medica e prescrizione – ove possibile: ad oggi solo Puglia, Marche, Toscana e Veneto sono le regioni che riconoscono i valori terapeutici del prodotto – non è cosa facile. Lo stato italiano passa il farmaco come sperimentale per cui copre una parte dei costi necessari al trasporto e alla produzione, acquistando all'estero: tuttavia per il paziente non è così lineare la procedura. Tempi di attesa infiniti pregiudicano la continuità della terapia e quindi la compliance del paziente, riducendo anche gli effetti positivi derivanti dall'utilizzo; inoltre, il fatto di non averla sempre a disposizione induce il paziente a rivolgersi ad altre fonti per recuperarlo, come le mafie ed i pusher di strada, perdendo anche notevolmente sulla qualità del prodotto. È infatti difficile parlare di farmaco equivalente relativamente alla marijuana: la posologia e la caratterizzazione della pianta da assumere variano notevolmente da terapia a terapia e di paziente in paziente; va da se che rinunciare anche solo per poco tempo al farmaco prescritto, alla dose prescritta ed ai tempi dovuti pregiudica interamente l'intero successo terapeutico. Senza considerare che in molte regioni citate il THC è somministrato unicamente in regime ospedaliero, l'acquisto al di fuori del nosocomio è seguito dalle agenzie farmacologiche regionali ma molto è nelle mani del paziente, che viene spesso abbandonato al suo triste destino.
Allora ancora una volta la risposta vincente sta nella mobilitazione dal basso che pratichi risposte concrete e possibili che per fortuna già esistono. Da qualche anno è nata infatti un'esperienza significativa, che si amplifica aumentando il numero di tesserati e di consumatori: è il caso di “LapianTiamo”, di fatto il primo – ed unico – cannabis social club d'Italia. É un centro situato nella bassa provincia di Lecce, fondato da due signori malati di sclerosi multipla, che in barba ad ogni proibizionismo ed oscurantismo hanno aperto uno spazio dove coltivano e vendono ad altri soci, anch'essi gravemente malati, la marijuana terapeutica, limitandone i disastrosi costi di gestione economica dell'individuo (un grammo può costare fino a 35€). Organizzandosi in associazione, modello virtuoso che permette a persone anche lontane di delegare ed in seguito ottenere la sostanza. Tanto per la cronaca, sindaco, regione, provincia, università e asl hanno dato pieno appoggio al progetto.
Se esperienze come quella di Lecce sono importanti urge quanto mai una revisione giuridica delle leggi su uso, consumo, cessione e produzione di marijuana, in linea con quanto succede nel mondo dopo anni ed anni di proibizionismo barbaro, dopo che nello stato italiano per colpa dell'equiparazione fra sostanze leggere e pesanti chi ha dell'erba in tasca rischia da 6 a 20 anni di galera; una visione d'insieme e globale dell'utilizzo di tale sostanza impone infatti uno sguardo anche alle carceri sovraffollate, dove buona parte dei detenuti è dentro per crimini legati a sostanze stupefacenti. E i costi di gestione carceraria, lotta alle narcomafie e campagne di prevenzione anticrimine dove li mettiamo? Se solo fossero stati utilizzati nella ricerca e nella sperimentazione di strade alternative, nell'uso concreto di un farmaco promettente, nella comprensione di meccanismi cellulari avanzatissimi, oggi avremmo sicuramente molti meno morti sulla coscienza.

*Assemblea di Medicina della Sapienza

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