mercoledì 26 marzo 2014

La povertà, razzismo d’Europa.


«La casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cer­casse rifu­gio nella sua tana minu­scola e illu­so­ria». Sono state forse que­ste parole — con­te­nute nell’appello con cui alcuni intel­let­tuali hanno sen­tito che occor­reva guar­dare alla Gre­cia come a una sorella — a con­vin­cermi che qual­cosa di nuovo stava acca­dendo: l’irrompere della realtà, la neces­sità di nomi­nare la mise­ria come una pre­senza che ci inter­pella, che minac­cia le nostre esi­stenze, che erode un mondo di con­cetti di cui ci è rima­sta in mano un’inutile se non dan­nosa carcassa.
 
Il Manifesto Daniela Padoan
Né l’Europa divisa nuo­va­mente in caste è un rifu­gio, né lo è la nostra esi­stenza pic­co­lo­bor­ghese, dove la parola «povertà» ha finora riguar­dato solo e sem­pre gli altri.
Per­ché l’Europa – intesa come mostro buro­cra­tico al ser­vi­zio del capi­tale indu­striale e finan­zia­rio – abbia ogni inte­resse a occul­tare la que­stione sociale, è evi­dente: ridurre la sof­fe­renza degli uomini e delle donne a numeri, sta­ti­sti­che, sot­to­com­mis­sioni, rego­la­menti e pro­ce­dure signi­fica ane­ste­tiz­zare la rab­bia, la ribel­lione, la rea­zione col­let­tiva. Signi­fica ren­dere la disoc­cu­pa­zione, il licen­zia­mento, la per­dita di ogni pos­si­bi­lità di sosten­ta­mento, la debo­lezza davanti alla malat­tia e alla vec­chiaia, una que­stione pri­vata, un fal­li­mento dei sin­goli. Ma per­ché la que­stione sociale sia stata con­si­de­rata mar­gi­nale dai par­titi della sini­stra, che pro­prio nel non saper­sene fare inter­preti hanno decre­tato il loro disfa­ci­mento, è meno evi­dente. Da un certo punto in avanti, la sini­stra ha smesso di rap­pre­sen­tare i più deboli, è diven­tata sorda al dolore, all’umiliazione, ha dele­git­ti­mato ogni sen­ti­mento di rivolta di fronte al sopruso. Si è fatta par­te­cipe e media­trice di poli­ti­che deva­stanti, ali­men­tando dot­trine di sacri­fi­cio di fronte al disa­stro, assu­mendo il con­cetto di crisi come feno­meno natu­rale, scia­gura ine­lut­ta­bile dalla quale solo gli esperti pos­sono trarci in salvo.

La povertà, parola impro­nun­cia­bile, è diven­tata – da ossi­fi­ca­zione nelle figure ras­si­cu­ranti per­ché estreme del clo­chard, del bar­bone, del sen­za­tetto, del drop-out – una que­stione di atti ammi­ni­stra­tivi, nor­ma­tivi, una mate­ria di diret­tive: una poli­tica occul­tata sotto sigle illeg­gi­bili che in Gre­cia si è con­cre­tiz­zata nel fatto che i malati muo­iono di can­cro senza più assi­stenza ospe­da­liera, che le uni­ver­sità chiu­dono, che il tasso di mor­ta­lità neo­na­tale giunge alle per­cen­tuali di quello che era­vamo soliti chia­mare Terzo Mondo.
Abbiamo ancora nelle orec­chie gli eufe­mi­smi ai quali sono ricorse, nel tempo, diverse dit­ta­ture per masche­rare i pro­pri atti cri­mi­nali: la mat­tanza com­piuta dalla dit­ta­tura argen­tina, che fece spa­rire tren­ta­mila oppo­si­tori get­tan­doli in mare dagli aerei, venne chia­mata «pro­cesso di rior­ga­niz­za­zione nazio­nale»; l’eliminazione indu­striale nelle camere a gas di sei milioni di indi­vi­dui venne chia­mata, nella Ger­ma­nia nutrita di Goe­the, «solu­zione finale della que­stione ebraica». Oggi, nella demo­cra­tica Europa, nata sulle rovine della Seconda guerra mon­diale come anti­doto alle dit­ta­ture, una poli­tica eco­no­mica agita da un potere sovra­na­zio­nale con il vas­sal­lag­gio dei governi demo­cra­tici viene chia­mata auste­rity , fiscal com­pact , pareg­gio di bilan­cio, ristrut­tu­ra­zione del debito.
Quando, tre anni dopo il default dell’Argentina, andai a Bue­nos Aires per scri­vere un libro sulle Madri di Plaza de Mayo, ebbi modo di vedere i  car­to­ne­ros che vive­vano a migliaia nelle bidon­ville tutt’attorno alla città, e i bam­bini che si pro­sti­tui­vano in pieno giorno sulla cen­tra­lis­sima Ave­nida 9 de Julio. La pre­si­dente delle Madri, Hebe de Bona­fini, mi portò in un mani­co­mio dove gli inter­nati, che chia­mava «pri­gio­nieri psi­chia­trici», erano abban­do­nati a se stessi, nella spor­ci­zia, con quasi nulla da man­giare. Ricordo che, davanti al mio scon­certo, più volte mi disse: fai un errore se ci guardi come un mondo diverso dal tuo, siamo solo il primo esem­pio, la prima pale­stra del neo­li­be­ri­smo, arri­verà anche da voi. «Noi Madri», ripe­teva, «cre­diamo che i disoc­cu­pati siano i nuovi desa­pa­re­ci­dos del sistema, e che la man­canza di lavoro sia uno tra i peg­giori cri­mini con­tro l’umanità. Un lavoro degno è un diritto umano ina­lie­na­bile e la sua man­canza porta con sé la fame dei bam­bini e la distru­zione delle famiglie».
La casa di tutti noi è in fiamme, e le nostre tane sono minu­scole e illu­so­rie. Ma nomi­nare la realtà è già di per sé un atto rivo­lu­zio­na­rio: signi­fica non solo uscire dall’oscurità, ma ritro­vare un senso di fra­tel­lanza. Non un chi­narsi sui deboli da una posi­zione di illu­mi­nata supre­ma­zia, ma un con­di­vi­dere affanni e spe­ranze. Que­sto moto inte­riore è stato archi­viato dalla sini­stra tele­vi­siva e pro­fes­sio­nale come naïf, ciar­pame di vec­chie litur­gie, con il risul­tato di lasciare agli arrin­ga­tori di piazze la pos­si­bi­lità di par­lare al dolore e all’umiliazione delle per­sone, al senso di rivolta con­tro l’ingiustizia, che ancora è la vera molla capace di farci uscire dalle nostre clau­stro­fo­bi­che e pri­vate prigioni.
L’incendio che avanza rischia di abbat­tersi sui paesi medi­ter­ra­nei chia­mati Pigs – un acro­nimo che rimanda, più che a un lap­sus, all’emergere di un antico disprezzo non sopito, ben­ché si sia poi tra­sfor­mato in Piigs, con l’ingresso dell’Irlanda, e sia stata coniata l’alternativa Gipsi, a dimo­stra­zione di quanto i fan­ta­smi non risolti della vec­chia Europa raz­ziale aleg­gino ancora nell’inconscio collettivo.
Uno spet­tro si aggira per l’Europa, ed è lo spet­tro della povertà. Igno­rarlo, o fin­gere che non ci riguardi, ha lasciato un enorme numero di uomini e di donne privi di rap­pre­sen­tanza; espo­sti – come scri­veva Han­nah Arendt a pro­po­sito delle rivo­lu­zioni fran­cese e russa – a cadere dalla dimen­sione della libertà a quella del biso­gno, deviando verso l’assolutismo. E il risve­glio che ci attende all’apertura delle urne euro­pee rischia di essere molto duro, con un’ascesa del blocco nazio­na­li­sta, raz­zi­sta e xeno­fobo che va dal Front Natio­nal di Marine Le Pen, che potrebbe diven­tare il primo par­tito in Fran­cia, a  Job­bik , il movi­mento di estrema destra di Gabor Vona, attual­mente terzo par­tito unghe­rese, pas­sando per il par­tito belga Inte­resse fiam­mingo di Vlaams Belang e la lista Veri Fin­lan­desi di Timo Soini, senza dimen­ti­care Alba Dorata e la Lega Nord .
Veniamo da una sto­ria che, nel Set­te­cento, nel cuore dell’Europa, ha con­ce­pito l’ideologia che chia­miamo raz­zi­smo – ovvero la «natu­rale» supre­ma­zia dell’uomo occi­den­tale, maschio, bianco, dotato di logos, nei con­fronti dei «sel­vaggi» delle colo­nie, gra­dual­mente pros­simi, in base al colore della pelle e ai tratti soma­tici, alla scim­mia; una sto­ria che, nell’Ottocento, con il dar­wi­ni­smo sociale, ha teo­riz­zato e pra­ti­cato la sop­pres­sione dei più deboli – dei malati, degli han­di­cap­pati, degli omo­ses­suali, dei «devianti» di ogni spe­cie – tra­mite le dot­trine dell’eugenetica e le pra­ti­che di ste­ri­liz­za­zione for­zata e di euta­na­sia; una sto­ria che, nel Nove­cento, ha pia­ni­fi­cato e attuato lo ster­mi­nio su base raz­ziale, con l’invenzione delle camere a gas e dei campi di annien­ta­mento. C’è una gerar­chia del disprezzo, il cui pre­ci­pi­zio abbiamo visto in Ausch­witz, che la nostra tra­di­zione di pen­siero ci ha adde­strato a rico­no­scere come «natu­rale», arti­co­lan­dola in uomo-donna, cultura-natura, logos-barbarie. È con que­sta tra­di­zione che dob­biamo fare i conti. Non ser­vi­ranno le litur­gie della memo­ria a pre­ser­varci dal ritorno di quella furia omi­cida, ma solo un pro­fondo ripen­sa­mento delle radici cul­tu­rali che tutt’ora ci nutrono.
Se anche è stata dimo­strata l’inesistenza scien­ti­fica del con­cetto di razza appli­cato agli uomini, per­mane un raz­zi­smo para­dos­sale, un raz­zi­smo senza razze, rivolto con­tro i poveri, resi cate­go­ria, desti­tuiti di uma­nità, pos­si­bili da sfrut­tare e da annien­tare. Torna attuale il pro­blema della schia­vitù, che siamo abi­tuati a col­lo­care nel mondo antico e negli Stati sudi­sti del cotone, men­tre, nella nostra sto­ria recente, un paese colto e tec­no­lo­gi­ca­mente avan­zato ha pro­get­tato la sot­to­mis­sione di tutti gli altri popoli euro­pei: una parte di essi sarebbe stata sop­pressa, gli altri sareb­bero stati fatti schiavi, così da garan­tire la supre­ma­zia e lo «spa­zio vitale» del popolo germanico.
La Lista L’Altra Europa con Tsi­pras ha posto come punto qua­li­fi­cante del suo pro­gramma la lotta alla xeno­fo­bia e al raz­zi­smo, e la ricerca di poli­ti­che fon­date sui prin­cipi di giu­sti­zia, acco­glienza, soli­da­rietà e inclu­sione sociale. Per­ché, come ripe­tono le Madri di Plaza de Mayo, «non si vince alla lot­te­ria, d’essere poveri». Si tratta di poli­ti­che decise dagli uomini, e il solo modo che abbiamo per cam­biarle è abbrac­ciare l’orizzonte con­ti­nen­tale, costruendo un’Europa che non sia una giu­sti­fi­ca­zione meta­fi­sica della sot­to­mis­sione, un moloch che richiede il sacri­fi­cio dei deboli, ma una garan­zia di demo­cra­zia e di inclu­sione. È neces­sa­rio tor­nare alle ori­gini del pro­getto euro­peo, alle moti­va­zioni pro­fonde della sua costi­tu­zione, prima di essere som­mersi da un nuovo fascismo.
La sola comu­nità pos­si­bile, scri­veva Geor­ges Bataille, è quella di coloro che non hanno comu­nità, ed è a loro (a noi) che dob­biamo ten­tare con tutte le nostre forze di dare rappresentanza.
* La ver­sione inte­grale di que­sto testo verrà pub­bli­cata nel pros­simo numero della rivi­sta Inchiesta

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