sabato 4 ottobre 2014

Un’alternativa ai coffeeshops Salvina Rissa presenta lo studio di Tom Decorte sui Cannabis Social Clubs in Belgio per la rubrica di Fuoriluogo su Il Manifesto del 24 settembre 2014.


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I Cannabis Social Club (Csc) sono sorti su iniziativa di gruppi di consumatori, per produrre collettivamente la cannabis destinata ad uso personale. L’iniziativa è possibile nei paesi in cui la coltivazione su scala ridotta è equiparata alla detenzione e al consumo di cannabis (ad uso personale), e tutte queste condotte sono depenalizzate, o comunque non perseguite in quanto non considerate come priorità dell’azione penale. Nati in Spagna verso la metà della scorsa decade, i Csc si sono diffusi in diversi paesi europei. In Belgio, le linee guida emanate dal Ministero della Giustizia nel 2005 stabiliscono i confini dell’uso personale: non perseguito se la detenzione non supera i 3 grammi o se si coltiva una sola pianta. 

Dal punto di vista dei consumatori, i Csc hanno il merito di proteggere dalle insidie del mercato clandestino; sul piano politico, suscitano interesse poiché possono costituire una via intermedia fra la proibizione totale e la legalizzazione/commercializzazione su larga scala. Per una ragionata valutazione politica, è necessaria un’analisi in profondità dell’esperienza, alla ricerca dei punti forza, ma anche delle aree problematiche e delle possibili insidie. E’ quanto offre lo studio di Tom Decorte, Cannabis Social Clubs in Belgium: Organizational strenghts and weaknesses, and threats to the model, che sta per uscire su International Journal of Drug Policy. 
In Belgio esistono 6 club, di dimensioni assai diverse: si va dai 237 membri di Trekt uw Plant (Tup) di Anversa, ai 13 membri di WeedOut di Andenne. Sono aperti ai soli residenti, maggiorenni, che siano già consumatori di cannabis. La quota associativa è di 25 euro all’anno per tutti i club. Tra le regole principali: il divieto di vendere ad altri la cannabis del Csc; l’obbligo di non causare disturbo dentro e nelle vicinanze del club. La gran parte degli associati sono consumatori ricreazionali ma c’è anche una minoranza che la usa a fine medico. 
Quanto alla cura delle piante, in alcuni club i coltivatori sono membri del circolo stesso, in altri sono assunti a contratto con regole precise: non possono coltivare altre piante oltre il numero stabilito e ad ogni pianta deve corrispondere il nome di un membro del club. La coltivazione è organica e tutti i club si stanno dotando di certificazione di qualità, compreso l’esatto contenuto di Thc. In genere, il raccolto viene distribuito ogni due, tre mesi. I limiti di sostanza consentiti per socio consumatore variano molto a seconda del club, dai 10 ai 30 grammi al mese e così i prezzi (dai 5 agli 8 euro per grammo), destinati a coprire i soli costi di produzione, di immagazzinamento e conduzione del club. 
Tra i punti forza del modello: la rigorosa autoregolamentazione, col divieto di vendita ai non soci, è un’alternativa discreta al modello troppo “visibile” dei coffeeshops e offre ai consumatori un ruolo attivo di controllo sulla sostanza. Il problema sta nella mancanza di base giuridica certa e nell’assenza di controlli di legge. Da un lato i Csc sono esposti al rischio di una recrudescenza proibizionista, come accadde nel 2006, quando i membri del Tup furono accusati di associazione criminale per coltivazione illegale. Dall’altro, i club subiscono le pressioni della narcocriminalità a produrre su larga scala. Stanno così emergendo i “club ombra”, che abusano del marchio di Csc: ad esempio nel 2013 la polizia scoprì che il club Eureca coltivava 60 piante, a fronte di soli 16 membri. 
Conclude l’autore: sarebbe bene definire per legge le regole chiave, dal numero massimo di soci, alle procedure di qualità, alla quantità massima di Thc; perché mantenere l’autoregolamentazione e l’etica no-profit sotto la spinta della speculazione è difficile, senza alcun controllo legale. 

Lo studio di Tom Decorte su www.fuoriluogo.it 

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