giovedì 27 novembre 2014

Il Governo Renzi si fa bocciare in legge.

Norme mal scritte, contrasti con le Camere, bacchettate dal Quirinale. Ecco tutti gli errori nei provvedimenti usciti negli ultimi mesi da Palazzo Chigi.


L'Espresso di Paolo Fantauzzi
Il Governo Renzi si fa bocciare in leggeMaledetta “annuncite”. Il gusto per lo scatto e la serpentina rapida, capace di scartare e spiazzare gli avversari con annessi lacci e lacciuoli di burocrazia e vecchia politica, rischia di giocare un brutto colpo a Matteo Renzi. Nell’era della semplificazione 2.0, coi tweet-slogan da 140 caratteri, accade infatti che il governo abbia già inanellato una discreta serie di topiche sul punto che più dovrebbe stargli a cuore: le leggi. Col risultato ormai frequente di conferenze stampa con tanti annunci ma senza testi disponibili, lunghe soste “tecniche” al Quirinale, provvedimenti da riscrivere da cima a fondo.

Così, se la rivoluzione renziana è puro movimento, il rischio è quello di un motore che gira a vuoto per mancanza di coordinamento. E non è questione di gufi e rosiconi tanto cari all’immaginario del premier: in tutte queste falle l’esecutivo ci ha messo del proprio, come nella scelta di Teresa Bene per il Csm, indicata dal ministero della Giustizia e bocciata dal plenum per assenza dei requisiti. A conferma che il gelido consiglio evocato dall’arcinemico di ritorno Massimo D’Alema («Meno spot e un’azione di governo più riflettuta, Matteo») non sia così campato in aria.


OMESSO CONTROLLO
Vedi la legge di stabilità, inviata il mese scorso al Quirinale senza la bollinatura della Ragioneria generale, il “timbro” che certifica la copertura economica. A dare la cifra della questione è però il rocambolesco decreto Competitività, oggetto in estate di un autentico caso politico: entrato al Colle con più di 130 articoli, uscito dopo giorni di taglia e cuci in versione ridotta e con giudizi non proprio benevoli. E nel merito, con qualche decisione non proprio irreprensibile. Come il mezzo miliardo che si voleva regalare a Poste italiane per pagare una multa per aiuti di Stato inflitta dal Tribunale della Ue. In che modo? Tagliando 410 milioni al fondo per pagare i debiti della pubblica amministrazione. Peccato che appena pochi giorni prima il governo si fosse impegnato ufficialmente a completare al più presto il rimborso di tutti gli arretrati con un apposito protocollo.

Preso poi d’assalto dai partiti al Senato, il decreto è diventato un carrozzone indigeribile, che addirittura consentiva ad alcuni manager pubblici di derogare al tetto di 240 mila euro di stipendio. “Un marchettificio”, il commento più bonario in quei giorni. Risultato: una manovra d’emergenza per eliminare alla Camera molte delle regalie. Una figuraccia tutt’altro che incruenta: di mezzo c’è andato uno dei capi del legislativo di via XX Settembre, Andrea Simi. Spinto all’addio, si sussurra, con l’accusa di mancata vigilanza (ma forse anche perché non troppo allineato al nuovo corso renziano).

Situazione simile poche settimane prima col decreto Irpef, quello degli 80 euro in busta paga, dove il governo ha addirittura rischiato l’incidente diplomatico con la Presidenza della Repubblica per l’approvazione di un emendamento che parametra i tagli agli organi costituzionali col budget a disposizione. Tradotto: sforbiciate più pesanti per Quirinale e Consulta, più leggere per le Camere. Nulla di male, se il segretario generale Donato Marra e il sottosegretario Graziano Delrio non avessero già pattuito diversamente. Irritato, il Colle ha inviato perfino una memoria al governo per chiedere il rispetto dei patti. Ma la moral suasion non è andata in porto.

NON È UN PAESE PER VECCHI

Il premier sta cambiando la rete delle relazioni tra poteri forti. Con la “trinità” Lotti, Carrai, Bianchi che domina all'ombra di Palazzo Chigi. E una leva di lobbisti rampanti alla carica. Ecco la galassia che unisce governo, banche, aziende e apparati. E che nella Leopolda avrà la sua consacrazione.

Tra furia rottamatrice e devozione per il giovanilismo purchessia, non se la sono scampata nemmeno i pensionati, ai quali col decreto Madia è stato di fatto vietato di collaborare con la pubblica amministrazione. Una decisione dovuta all’abitudine di molti ministeri di rivolgersi agli ex dipendenti a riposo per risparmiare, tanto che già Mario Monti nel 2012 aveva imposto che gli incarichi non riguardassero mansioni svolte negli ultimi 12 mesi. Ma nella foga di svecchiare, il governo Renzi ha reso l’interdizione assoluta (e non retribuita). Poi tutti a casa. O al massimo ai giardinetti. Senza tante storie. Con buona pace dei volontari âgé che, senza alcun rimborso, da anni colmano le carenze d’organico nel comparto pubblico, dai tribunali agli uffici comunali.

Una previsione giudicata eccessiva anche dal comitato per la Legislazione della Camera, che esamina la qualità dei provvedimenti, secondo cui sarebbe stato «opportuno esplicitare più chiaramente l’ambito di applicazione». Ma la norma non convince neppure un esperto di semplificazione come Alessandro Pajno, presidente della V sezione del Consiglio di Stato: «C’è un profilo di incostituzionalità, perché non si può limitare l’iniziativa lavorativa. Quindi se non si precisa meglio, il divieto rischia di essere illegittimo».

Che sia regolare o meno, le conseguenze hanno già iniziato a farsi sentire. Così, mentre un pensionato doc come Tiziano Treu è stato nominato commissario dell’Inps, il ministero dell’Università ha rigettato la terna proposta dal Consiglio accademico del Conservatorio “Rossini” di Pesaro per la scelta del presidente: fra i nomi prospettati c’è un dipendente pubblico in quiescenza, Giorgio Girelli, e l’incarico da qualche anno prevede una indennità di circa 600 euro al mese. A nulla è valsa la rinuncia alla retribuzione da parte di Girelli, che ha già guidato gratis l’istituto.

CI PENSA MATTEO
Per carità, errare è umano e se è per questo il 2014 era iniziato con un capolavoro autolesionistico: per una svista la legge che abolisce i rimborsi elettorali, varata dal governo Letta, nel triennio comporterà 45 milioni di minori introiti per i partiti (18 solo quest’anno). Ma adesso, con un energico premier sul ponte di comando, come spiegare un iper-attivismo che, senza ponderazione, rischia di rivelarsi non solo infruttuoso ma addirittura controproducente? Perché la velocità impone l’azione purchessia. «Non solo fare, ma soprattutto dare l’impressione di fare» commentano dai legislativi delle Camere, dove ogni testo di legge viene vagliato e tradotto “in prosa” per i parlamentari chiamati a occuparsene.

I rapporti tesi con gli uffici del ministero dell’Economia, ad esempio, sono segnati da divergenze che a volte sconfinano nell’incomunicabilità: da una parte le accelerazioni di Palazzo Chigi (dove alla stesura dei testi sovrintende Antonella Manzione, già comandante dei vigili di Firenze, oggi potente capo dell’Ufficio legislativo, vedi “l’Espresso” n. 37) dall’altro i tecnici del Tesoro, che chiedono più tempo per scrivere o valutare le norme. Il risultato è una concentrazione di potere molto più forte del passato, una fiducia salvifica nelle capacità di Renzi che traspare nella preminenza affidata a Palazzo Chigi sulle materie più disparate, dall’edilizia scolastica ai porti.

E così anche i provvedimenti sono cuciti addosso al decisionismo del premier: il meccanismo del silenzio-assenso, pensato per velocizzare la concessione di autorizzazioni e nulla osta, nel disegno del governo prevede che la risposta arrivi entro 30 giorni. Poi, in caso di mancato accordo, il presidente del Consiglio decide in splendida solitudine sulle modifiche da apportare. Una prospettiva tale da far sobbalzare la presidente dell’associazione dei professori di diritto amministrativo, Maria Alessandra Sandulli: «Sono molto perplessa, siamo sicuri che si possa fare?» ha domandato durante un’audizione al Senato. Tanto più che la novità è condita con l’immancabile punizione per gli inadempienti: per chi non rispetta i tempi di risposta, niente assunzioni. Col rischio, a detta degli esperti, che negando un migliore assetto organizzativo la situazione finisca per peggiorare ulteriormente.

Non è solo questione di merito. Se la forma è anche sostanza, vanno annoverati pure casi di mera trascuratezza. Come lo Sblocca Italia, che dovrebbe far ripartire i cantieri fermi ma ha ricevuto i dubbi di Bankitalia e dell’Anticorruzione per i rischi di tangenti e riciclaggio. Quando lo hanno letto, agli uffici di documentazione della Camera non credevano ai loro occhi: due parti denominate “Misure urgenti in materia ambientale” distanti fra loro la bellezza di 25 articoli. Motivo? Evidentemente a nessuno è venuto in mente di accorparle. Il 1° agosto, presentandolo alla stampa, Palazzo Chigi caricò perfino un pdf sul sito per illustrare i dieci punti chiave. Ma il quarto, lo Sblocca porti, è mestamente vuoto da allora: nessuno si è accorto che il documento era incompleto.

L’anticipo del tfr è invece finito nel mirino del lettiano Francesco Boccia che, al netto del possibile risentimento verso il governo Renzi, è pur sempre presidente della commissione Bilancio di Montecitorio: non distingue tra pubblico e privato né la dimensione dell’azienda, non valuta l’impatto e prevede una tassazione ordinaria. Insomma, «una norma scritta con i piedi» il non proprio benevolo commento.

A VOLTE RITORNANO
Non mancano nemmeno i provvedimenti-lampo, come il taglio dell’Iva ai marina resort (i posti barca adibiti al pernottamento) pensato per rilanciare la filiera nautica. Obiettivo oggettivamente difficile, visto che vale dall’entrata in vigore (11 novembre) a fine anno: ci vorrebbe un evento soprannaturale. D’altronde, quando si dice che un governo fa miracoli, può anche capitare che qualcuno resusciti. Come il commissario straordinario per la ricostruzione in Irpinia, soppresso a febbraio, una settimana prima dell’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi e a 34 anni suonati dal terremoto. Tempo quattro mesi e questa figura ormai mitologica è risorta dalle ceneri, riapparendo in un decreto che lo proroga a tutto il 2016 (a 100 mila euro l’anno) insieme al “gemello” incaricato di completare la galleria Pavoncelli bis, il tunnel che dovrebbe portare l’acqua dall’avellinese alla Puglia. I lavori sono iniziati nel 1989 ma finora ne sono stati realizzati un paio di chilometri appena, un quinto del totale. Una media di 100 metri l’anno, meno di trenta centimetri al giorno. E di questo passo ci vorrà un altro secolo per finire.

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