domenica 27 settembre 2015

Scuola. La Carta del docente: come ripensare il rapporto tra lo Stato e i suoi insegnanti.

Quasi tutti hanno salutato con favore, e con ragione, il decreto firmato pochi giorni fa dal Presidente del Consiglio, che assegna a ciascun docente di ruolo nella scuola statale una sorta di bonus stipendiale da 500 euro annui, da spendere in attività di formazione e aggiornamento culturale o professionale.



micromega di Carlo Scognamiglio

Posto come criterio generale del buon senso l’associazione di un giudizio positivo per ogni iniziativa che miri a migliorare le possibilità di crescita dei lavoratori, è necessario esercitare il proprio pensiero anche in una valutazione più critica e analitica dell’iniziativa governativa.

Se è vero che, stando a quanto espressamente scritto nella Legge 107, meglio nota come riforma per la “buona scuola”, il bonus destinato all’aggiornamento si presenterà nella veste di una “social card” per insegnanti (come l’ha definita la CGIL, cogliendone alcune affinità con la tessera tremontiana per indigenti), e che solo per quest’anno sarà accreditato direttamente in busta paga, in fondo quei 500 euro costituiscono, vuoi o non vuoi, un aumento salariale. Certamente si tratta di somme finalizzate al consumo culturale, ma in ogni caso definiscono un aumento di stipendio di circa 42 euro al mese. Letto in questi termini, e al di là della soddisfazione, occorrerebbe ammettere che degli aumenti si discute in fase di contrattazione, e non con decisioni unilaterali rispetto all’entità o alla destinazione da parte del datore di lavoro.

Se però, trascurando tale dettaglio, volessimo interpretare la Carta del docente come l’introduzione di un sistema di benefici ritenuti necessari alla peculiarità della professione docente, si potrebbe allora meglio approfondire la questione, per capire se e come tale misura risponda efficacemente a un bisogno reale, o se potrebbe invece essere migliorata in qualche maniera.

Non è detto, infatti, che sia un bene in sé la monetizzazione nuda e cruda dei contributi pubblici per la formazione, assimilando l’accesso alla cultura al sistema dei buoni pasto. Si possono formulare ipotesi alternative per gestire in modo più ponderato l’investimento ministeriale, garantendone una migliore efficacia, e una minore dispersione di risorse. Proviamo a tracciarne una sola variante a titolo esemplificativo.

Il ministero potrebbe, in primo luogo, finanziare almeno al 50% un abbonamento individuale annuo a un quotidiano d’informazione e a una rivista scientifica disciplinare, per tutti quei docenti che ne facessero richiesta. In tal maniera il beneficio sarebbe devoluto solo a vantaggio di chi fosse realmente interessato a spendere l’altra metà del costo totale, e costituirebbe al tempo stesso un giusto finanziamento pubblico per l’editoria. Analogamente, il MIUR potrebbe stipulare convenzioni con enti culturali, cinema e teatri per garantire tariffe ridotte di almeno il 50% a tutti gli insegnanti, a fronte di esibizione di una tessera identificativa. In questo modo si potrebbe anche oltrepassare il limite dei 500 euro, ma ciò accadrebbe solo nei riguardi di chi, versando la propria porzione di spesa, volesse accedere a un aggiornamento sistematico e non occasionale. Per quanto concerne i musei pubblici, dovrebbero con tutta evidenza garantire senza distinzione l’accesso gratuito a docenti e studenti, come accade in altre parti del mondo.

Una vera svolta su questo terreno sarebbe a portata di mano del governo, invertendo una dinamica storicamente nefasta. Negli ultimi anni le università italiane hanno ricevuto molto – anzi troppo – dagli insegnanti: SSIS, TFA, PAS, master e corsi di perfezionamento, hanno drenato dai bilanci familiari dei docenti o aspiranti tali verso le università statali e non statali cifre esorbitanti. Sarebbe ora che lo Stato provasse a innescare una vera rivoluzione nel rapporto di lealtà con i lavoratori della scuola pubblica. Gli insegnanti sono dipendenti MIUR, pertanto sarebbe possibile, senza eccesso di spesa (semmai smettendo di considerare le gabelle formative degli insegnanti come strumento per rifinanziare le università), consentire a tutti i docenti italiani l’accesso libero e gratuito a tutti i corsi di laurea, ai master e ai corsi di perfezionamento organizzati dagli atenei nazionali. Per quanto concerne le università private o le scuole di lingue, si potrebbe invece assicurare agli insegnanti una buona detraibilità fiscale delle spese sostenute, anche arrivando al 50%. Lo stesso si potrebbe fare per l’acquisto dei libri, come è già previsto per altre professioni.

La strada per una vera rivoluzione nel rapporto tra lo Stato e gli insegnanti, per un vero investimento sulla loro professionalità, non è difficile da tracciare, e non passa necessariamente per una monetizzazione diretta, che pur se apprezzata, appare più efficace sul piano comunicativo che su quello realmente formativo.

(25 settembre 2015)

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