giovedì 31 dicembre 2015

Che tu ci creda o no, l'importante non è "crederci".

TRAININGIn questi giorni mi è capitato di rivedere Ogni maledetto Natale, una commedia italiana in cui, tra le altre cose, un ragazzo "tranquillo" viene catapultato in una famiglia un po' "sopra le righe", e per questo viene subito etichettato come "infelice". Mosso a compassione verso di lui, uno dei protagonisti lo incita dicendogli più volte: "ce devi crede!". La battuta sottolinea quell'uso di fare appello alla fiducia in se stessi e di esaltare il "credo" personale come elementi risolutivi nelle sfide della vita.
Anche in altri ambiti il mantra si ripete: nello sport, ad esempio, l'atleta che vince una gara rivela di aver creduto fortemente nella possibilità di vittoria e quello che perde ammette di non averci creduto abbastanza. A me, a dire il vero, la raccomandazione suona sempre un po' enigmatica, innanzitutto perché le persone - a differenza di come si vuole rappresentarle - già possiedono, in realtà, una certa dose di fiducia in se stesse. L'elemento dell'autostima è insito in ogni umana attività: nessun professionista potrebbe svolgere il proprio lavoro se non credesse in se stesso, così come nessun atleta si presenterebbe ad una gara senza una buona dose di convinzione, e - credetemi - nessun giovane talento dello spettacolo potrebbe avventurarsi in un talent show senza un po' di narcisismo e senso della sfida... Anzi, in verità, la "convinzione" non manca quasi mai, anche in difetto di doti artistiche.

Io credo che l'autostima si basi sulle competenze e sulle abilità che si acquisiscono nel tempo, e difficilmente può scaturire da un semplice cambiamento nel modo di porsi, da un atteggiamento mentale o da un puro atto di volontà che farebbe di una persona dimessa e insicura una vincente. La consapevolezza razionale è un conto, la conoscenza di se stessi è un conto, ma il "crederci" - che ormai tutti danno per buono - ha qualcosa di evanescente e d'ingannevole. E può avere anche conseguenze negative per l'individuo e per la società. Perché, dunque, ci siamo tanto affezionati all'idea che per cambiare le cose basti avere più convinzione? Perché ci aggrappiamo allo stereotipo secondo il quale un salto qualitativo è sempre possibile nelle nostre vite, se siamo capaci - grazie al fatidico "supplemento di fiducia" - di attivare risorse individuali ancora inespresse?
Mai come in questo momento della nostra storia, nel quale la formazione scolastica non sembra dare sbocchi, nel quale il lavoro è precario e la concorrenza agguerrita, e nel quale molte variabili rendono oggettivamente difficile emergere e programmare una carriera, consola pensare che una forza misteriosa - il supplemento di fiducia appunto - possa essere in qualche modo attivata e garantirci il risultato. Il rischio dell'insuccesso è nelle cose concrete della nostra società, nelle sue logiche e nelle sue incongruenze, e non dipende da noi, se non in piccola parte. Si preferisce tuttavia pensare che una formula segreta esista e che, credendoci, si possa avere ragione del mondo. Io preferisco lavorare e far lavorare sulla conoscenza di sé, delle proprie abilità e delle proprie inclinazioni. L'affermazione di queste qualità, poi, non dipende da quanto ci si crede, ma da quanto la società è disposta ad accoglierle. E studiare, lavorare, migliorare se stessi è il primo passo per incidere anche in questa stessa società. Che tu ci creda o no.

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