lunedì 28 dicembre 2015

Classe Operaia. Schiavi nell'oceano. Multinazionali senza legge. Seconda puntata dell'inchiesta "Mare di nessuno".

Maltrattamenti, ingenti debiti, scarsa sicurezza, falsi salari: sono alcuni dei problemi che ruotano intorno allo sfruttamento del lavoro in alto mare. E sono diverse le storie di uomini, vittime di questi abusi, raccontate da Ian Urbina nei suoi reportage. Li definisce “sea slaves” – gli schiavi del mare – intrappolati all'interno di un sistema senza scrupoli che, in nome del profitto, sfrutta gli esseri umani e le situazioni svantaggiose in cui essi vivono. Perché alla base c'è l'inganno e, di conseguenza, la falsa speranza di poter dare alla propria vita una nuova direzione. La seconda puntata dell'inchiesta di Controlacrisi "Mare di nessuno" tratta appunto di lavoro. E dello strapotere delle multinazionali della filiera alimentare (e non solo) che stanno rendendo il mare, appunto, quel "luogo di nessuno" in cui non vale nessuna legge e in cui il padrone ha diritto di vita e di morte sui lavoratori.  
Sono “viaggi della disperazione” per uomini che si trovano su queste imbarcazioni quasi per caso, incoraggiati dalla speranza di trovarsi presto al sicuro, fuori dal proprio Paese, con un lavoro che possa aiutarli a sostenere le famiglie lontane. Viaggi testimoniati da chi a quella drammatica esperienza è riuscito a sopravvivere e ha potuto raccontarla, portando alla luce un problema importante ai più sconosciuto, come se le onde del mare ne avessero inghiottito ogni traccia.
Sulle imbarcazioni vi sono anche migranti “invisibili” in cerca di una vita migliore, che scelgono la via del mare, spesso con l’aiuto dell’equipaggio della nave. E si ha come l’impressione di trovarsi lì, attraverso le interviste e le parole di Ian Urbina, in mezzo ai mari e agli oceani, a bordo delle prigioni-peschereccio, dove i marinai vengono sottoposti a maltrattamenti e dove, a volte, vengono uccisi.

I pescherecci illegali scelgono per lo più la pesca ad ampio raggio, motivo per cui le imbarcazioni trascorrono tempi molto lunghi – talvolta anche anni – in mare aperto fuori dal controllo delle autorità, una situazione che consente di violare liberamente e indisturbatamente le norme sui diritti dei lavoratori marittimi.
Il lavoro forzato è molto diffuso nei mari del sud-est asiatico e riguarda principalmente le flotte thailandesi, in cui la carenza di marinai viene colmata attraverso lo sfruttamento di migranti, spesso sprovvisti di documenti d'identità, provenienti soprattutto da Cambogia e Myanmar. Parte di loro viene reclutata dai trafficanti e talvolta si tratta della prima esperienza come pescatori e marinai in alto mare.
Ufficiali del governo thailandese avevano annunciato l'intenzione di aumentare i controlli e i procedimenti penali, introducendo anche un sistema di registrazione dei migranti senza documenti per fornire loro un documento di identità, come aveva dichiarato Vijavat Isarabhakdi, ambasciatore della Thailandia negli Stati Uniti.
Forte la voce dei difensori dei diritti umani che invocano una maggiore attenzione delle aziende sull’origine della materia prima utilizzata nei propri prodotti a base di pesce e sulle condizioni di pesca e di lavoro; basti pensare che in questi pescherecci illegali i lavoratori trascorrono talvolta anche più di un anno in totale mancanza di igiene e di sicurezza, sprovvisti di acqua dolce per lavarsi, con lunghi turni di lavoro e, per di più, costretti a farsi carico di tutte le spese.
“Life at sea is cheap,” – “la vita in mare è economica” – ha detto Phil Robertson, dell'organizzazione internazionale Human Rights Watch, “and conditions out there keep getting worse” – e le condizioni stanno peggiorando – . I pasti sono ridotti al minimo, con una ciotola di riso al giorno con gli avanzi del pesce, e le condizioni di igiene sono pessime: le imbarcazioni sono infestate da scarafaggi e ratti.

Alcuni di questi marinai accettano il lavoro in barca per pagare il debito accumulato per ottenere un passaggio da un Paese a un altro. “Servitù a contratto”: così viene chiamato il sistema che si basa sul meccanismo “viaggi adesso, paghi dopo”. Allo sfruttamento del lavoro contribuiscono anche le cosiddette “manning agencies”, ossia le agenzie preposte al reclutamento dei marinai per gli equipaggi, che operano illegalmente.

Il settore delle agenzie di reclutamento dei marinai non è ben regolamentato e le poche norme esistenti non vengono applicate correttamente sui pescherecci, dove gli abusi sui lavoratori marittimi trovano, dunque, terreno fertile.
Dalle ricerche riportate negli articoli di Ian Urbina, risulta che una di queste agenzie illegali aveva reclutato circa una dozzina di uomini in un piccolo villaggio delle Filippine (Linabuan Sur), che, raggirati con la promessa di ingenti salari, erano stati mandati in Singapore e tenuti prigionieri in attesa di essere smistati nelle navi taiwanesi che trasportavano il tonno. Una volta a bordo, gli uomini sono stati sottoposti a duri turni di lavoro e maltrattamenti, per poi essere rimandati a casa senza salario.
“Step Up Marine Enterprise” è il nome dell'agenzia riportato nell'inchiesta. Una società con sede a Singapore, conosciuta per la lista dei capi d'accusa che le sono stati imputati: legami con i trafficanti, raggiro, negligenza e mancato pagamento del compenso agli uomini assunti per lavorare sulle navi.
Ma i procedimenti legali non sono stati portati a termine.

Risale al 2014 un'inchiesta aperta dall'accusa che ha coinvolto più di mille marinai reclutati illegalmente. Tuttavia, nonostante la portata del caso, le autorità non avevano competenza per incriminare la Step Up Marine Enterprises. Quest'ultima, insieme a una società partner di Manila, era stata già ripresa nel 2001 dalla Corte Suprema delle Filippine, ma i proprietari ne sono usciti puliti e, delle undici persone accusate delle illegalità, solamente una è stata arrestata.
Eppure la nave costituisce comunque un’àncora di salvezza per chi vuole abbandonare, anche temporaneamente, la propria terra d'origine, sia che si tratti di un'occasione di lavoro, sia che si tratti di un mezzo per fuggire altrove.
La ricerca di un salario e di una vita dignitosa porta tanti uomini ad accettare condizioni di lavoro degradanti e a rivolgersi, ad esempio, alle agenzie di reclutamento illegali. Un sistema distorto che fa parte di tante realtà lavorative, ancor più radicato lontano dalla terraferma e dagli occhi di chi ignora ciò che succede fuori dai propri confini o di chi, troppo spesso, fa finta di non vedere.

Chi è disposto a nascondersi dal resto del mondo pur di cambiare la propria vita non teme la morte. “A ship gives me the chance for my dreams to come true” – ha dichiarato durante un'intervista un migrante trovato nascosto a bordo della Dona Liberta e abbandonato in mezzo al mare dall'equipaggio – una nave gli dà l’opportunità di realizzare i suoi sogni. La nave è il simbolo della libertà. E anche questo è qualcosa di importante su cui riflettere.
introduzione "Sfruttamento e morte ai confini del mondo"

prima puntata "Dona Liberta, la nave che cambia bandiera a seconda dei traffici del momento" 

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