martedì 22 dicembre 2015

Lavoro bene comune: un manifesto.

L’età delle espulsioni inaugurata dalle dottrine neoliberiste ha nel Jobs Act la sua apoteosi, espressione della “legislazione delle espulsioni” applicata alla merce-lavoro. È tuttavia giunto il momento di contrastare questa brutale deriva, affermando con forza la centralità della teoria dei beni comuni anche nel lavoro. Un manifesto che, lontano dalle astratte teorizzazioni, può costituire il luogo di discussione per una radicale e rinnovata azione politico-sociale.



micromega di Domenico Tambasco
Nel continuo ed incessante processo di estrazione di valore della merce-lavoro[1] imposto dalle dottrine gestionali neoliberiste, un ruolo fondamentale rivestono le tecniche di “espulsione” dei soggetti che, considerati inadatti al processo di feroce selezione del sistema o giunti all’ultimo anello della catena di transazioni organizzativo-produttive, sono brutalmente allontanati dal “sistema” (spesso con il sigillo della legge), scarnificati di ogni umanità.

Del resto, la nostra è “l’età dell’espulsione”[2], un periodo in cui “la spoliazione e la distruzione… l’immiserimento e l’esclusione di masse crescenti di persone che non hanno più valore come lavoratori e consumatori… possono essere considerate il tratto saliente del capitalismo avanzato della nostra epoca rispetto a quello tradizionale”[3].

Si tratta di “una terza, incipiente fase storica, caratterizzata dalle espulsioni delle persone dai progetti di vita, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale, cardine delle democrazie liberali. Ben piu’ di un mero aumento della disuguaglianza e della povertà”[4].

L’espulsione, dunque, è la categoria concettuale che, icasticamente, meglio consente di rappresentare il metodo utilizzato dal “capitalismo avanzato” nello stoccaggio di “scarti” in proporzionale aumento rispetto ai frenetici ritmi di produzione; raffigura “a tutto tondo” l’integrale esclusione dal circuito economico e sociale.

Allontaniamoci per un attimo dal mondo delle idee e calchiamo l’accidentato terreno della nuda realtà; osservati in parallelo, il lavoro e l’ambiente sono un concreto esempio ed un privilegiato punto di osservazione dell’ “età dell’espulsione”.

Il meccanismo del sistema di mercato, infatti, è il medesimo sia che si tratti di lavoro sia che si parli di ambiente, attraverso la traduzione dell’espulsione nelle categorie giuridiche del “licenziamento” (nell’ambito del rapporto lavorativo) e delle “emissioni” (nell’ambito dei rapporti ambientali).

Categorie giuridiche che hanno analoga disciplina ed identici effetti.

La disciplina normativa, come detto, ha nelle astratte virtù del mercato il suo fulcro vitale: mercato del lavoro in cui milioni di persone sarebbero in perenne e fluido movimento da un posto di lavoro all’altro alla mercé di contratti a breve termine o rapporti liberamente recedibili; mercato delle emissioni carboniche, in cui a specifiche “quote di emissione” di carbonio cui sarebbero vincolate le singole aziende e i singoli Stati fanno da controcanto i “crediti di carbonio”, ovverosia un gioco di compensazioni – oggetto di lucrose transazioni economico-finanziarie- che consente di fatto di mantenere inalterate (se non di accrescere) le stesse emissioni carboniche[5].

Identici, come detto, sono anche gli effetti concreti, ben diversi dalle teorizzazioni di comodo dei “teologi” neoliberisti: se da un lato, infatti, abbiamo l’emissione di sostanze o scorie tossiche che costituiscono gli scarti della produzione e che notoriamente contribuiscono ad accrescere il livello di inquinamento globale dell’ambiente, dall’altro ben possiamo raffigurare l’espulsione di “scarti lavorativi” che, al contempo, nel restringere lo spazio economico disponibile[6] e nell’aumentare la massa di disoccupati e di soggetti inattivi, produce “esclusione sociale”[7], autentica forma di “inquinamento sociale”, foriera di profondi disagi e di altrettanto frequenti disordini; “riscaldamento globale” e “riscaldamento sociale”, dunque, vanno di pari passo.

Ecco dunque le precise coordinate entro cui si colloca la recente disciplina del Jobs Act, apoteosi delle dottrine giuslavoristiche neoliberiste: sono quelle della “legislazione delle espulsioni”, in cui dietro l’ipocrita facciata delle “tutele crescenti” e della “flessicurezza”, si cela la piena ed integrale affermazione del diritto di espulsione della merce-lavoro da parte del datore il quale, nel corso del processo produttivo o all’esito dello stesso, consideri questa “materia prima” non più idonea all’uso o ad un suo riutilizzo. Il lavoro è trasformato in un’esternalità produttiva, alla stessa stregua di un’emissione tossica.

Vi è, al fondo di questa distorta “filosofia”, una concezione autenticamente privatistica e proprietaria del lavoro, che appartiene agli albori del diritto, alla sua fase primitiva, in cui la proprietà altro non era se non lo ius utendi et abutendi (diritto di usare ed abusare), ovvero “l’affermazione di un diritto che, per essere sacro ed inviolabile, non può non convertirsi in una signoria assoluta del proprietario sul bene oggetto del suo potere”[8].

Eccoci dinanzi al “ritorno del padrone”[9], ovvero al datore rinnovato proprietario del lavoro. E alla stessa stregua di qualsiasi proprietario, la legislazione dell’espulsione traccia i suoi confini, innalza i suoi recinti, erige i suoi steccati sbarrando l’accesso a chiunque sia stato espulso, privato ormai di qualsiasi diritto di reintegra o di riammissione in servizio[10].

Come pretendere il ritorno sul posto di lavoro nei confronti di chi, legittimato oggi quale padrone del lavoro, ha anche lo ius excludendi, ovvero un dispotico diritto di escludere?

Torniamo allora al parallelismo tra lavoro ed ambiente poc’anzi evocato: forse potremmo scoprire un sentiero utile a superare le barriere erette dal moderno pensiero unico. Cammino che parte dall’identità funzionale del lavoro e dell’ambiente, entrambi accomunabili sotto la categoria dei beni comuni[11] - tertium genus rispetto alla proprietà privata e alla proprietà pubblica - trattandosi di “beni” essenziali per la sopravvivenza (il patrimonio ambientale con gli elementi costitutivi dell’aria, dell’acqua, della terra e del cibo) e per la tutela dell’eguaglianza e del libero sviluppo della personalità ( il lavoro)[12].

Il lavoro, in particolare, “va tutelato come bene comune di una collettività (nel cui ambito opera un’impresa). Il bene comune lavoro richiede che le persone siano occupate in modo qualitativamente accettabile e coerente con il pieno rispetto dei diritti costituzionali. In altri termini, vedere il lavoro come bene comune significa porre al centro le esigenze della collettività in cui avviene la produzione, adoperandosi in uno sforzo collettivo di soluzione dei problemi ad esso sottesi…il fine precipuo della difesa del lavoro come bene comune è quello di consentire ai lavoratori l’accesso ad un’esistenza libera e dignitosa nell’ambito di una produzione ecologicamente sostenibile, che rispetti perciò pienamente anche i diritti di chi non lavora (ancora o piu’) e in quelle comunità vive”[13].

Lavoro come bene comune dunque, alla stessa tregua del cibo, dell’acqua, dell’aria, della terra, della conoscenza e della cultura. Lavoro che, rientrando nello statuto dei “comuni” o “commons”, ne declina tutte le principali caratteristiche, dal libero accesso alla natura partecipativa e collaborativa della comunità utilizzatrice, dal rifiuto delle logiche di mercato alla logica “riproduttiva” e “conservativa” rivolta alle future generazioni, per arrivare fino al riconoscimento di strumenti di tutela “aperti” a chiunque, in diretta connessione con la natura diffusa degli interessi sottesi ai beni comuni[14].

Proprio dalla teoria dei beni comuni necessari alla garanzia dei diritti fondamentali[15], dunque, bisogna ripartire se si vuole in concreto contrastare la brutale e distruttiva logica della “legislazione delle espulsioni” applicata al lavoro.

Che si tratti di una teoria del tutto slegata dall’astratto mondo dei concetti ed al contrario totalmente calata nella gramsciana “filosofia della prassi”[16], ne è prova la possibile gemmazione di una precisa azione politico-legislativa, sostanziata in un vero e proprio “manifesto” e declinabile in sei congiunte linee d’intervento, che così riproducono la morfologia interna dei beni comuni:

- libero accesso al bene comune lavoro attraverso il ripristino effettivo della reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo nei rapporti a tempo indeterminato[17] e della riammissione in servizio nel contratto di lavoro a tempo determinato utilizzato abusivamente[18] (ovverosia al di fuori delle ragioni tipicamente temporanee connaturate a tale tipologia contrattuale); estensione delle tutele e delle garanzie anche ai rapporti di lavoro autonomo professionali e atipici[19]; sviluppo di sistemi di “reddito minimo universale” (finanziati oltre che dalla fiscalità generale, anche per mezzo di specifiche imposte sulle “emissioni di carbonio” poste a carico delle attività più inquinanti) funzionali anche al sostentamento di attività lavorative sociali o “no profit”[20];

- condivisione nella gestione del bene comune lavoro da parte dell’intera comunità lavorativa (costituita dalle imprese, dalle organizzazioni sindacali e dai lavoratori), attraverso la limitazione degli interventi legislativi statali ai soli principi generali inderogabili e l’affermazione della centralità, nella disciplina normativa, della contrattazione collettiva nazionale con le organizzazioni sindacali elettivamente rappresentative, avente efficacia di legge erga omnes;

- compartecipazione nell’utilizzazione del bene comune lavoro attraverso forme di cogestione o di autogestione da parte dei lavoratori, mercè l’effettiva attuazione dell’art. 43 della Costituzione secondo cui “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”;

- acquisizione della logica riproduttiva che abbia al centro l’umanità[21] e le generazioni future, attraverso l’abbandono di attività lavorative “sporche” ed inquinanti a favore di lavori concentrati in attività “ecosostenibili”[22];

- abbandono delle logiche di mercato finalizzate alla mercificazione del lavoro (oggi trasformato in un mero prodotto sostituibile arbitrariamente e sfruttabile a piacimento) con l’abrogazione della possibilità di demansionamento per motivi “organizzativi aziendali” prevista dalla recente novella all’art. 2103 c.c.[23] e l’introduzione, a tutela della personalità del lavoratore, di una specifica disciplina repressiva sia in via penale sia in via civile dei sempre più diffusi fenomeni di persecuzione sul posto di lavoro quali il mobbing e lo straining[24], anche attraverso la previsione di rimedi risarcitori di tipo “punitivo” (i cosiddetti punitive damages, ovverosia risarcimenti svincolati dall’entità del danno effettivamente causato e con finalità deterrente) e di regimi probatori semplificati[25];

- riconoscimento degli interessi diffusi sottesi al bene comune lavoro, mediante l’attribuzione a chiunque (tra cui anche le organizzazioni sindacali) della legittimazione ad agire in giudizio per la tutela di diritti sottoposti ad uno stringente regime di decadenze (è il caso dei termini per l’impugnazione dei contratti a tempo determinato, dei licenziamenti, dei trasferimenti e delle somministrazioni illecite di manodopera[26], per cui si potrebbe pensare ad un diritto di impugnazione “diffuso”) o per il recupero dei crediti retributivi documentalmente non corrisposti (con azione esperibile anche dalle organizzazioni sindacali nei casi di accertato omesso versamento delle retribuzioni o delle spettanze di fine rapporto) e l’abolizione degli ostacoli economici all’accesso alla tutela giurisdizionale del lavoro (reintroduzione dell’esenzione totale dal pagamento delle spese di giustizia in materia di lavoro e modifica dell’art. 92 c.p.c. relativo alla condanna al pagamento delle spese legali della parte soccombente, con introduzione della compensazione automatica per le particolari condizioni economiche delle parti o nel caso di esenzione totale dal pagamento del contributo unificato[27]);

Sono le logiche e pratiche conseguenze di un modo nuovo di ragionare; siamo dinanzi alla necessità di operare un completo mutamento di paradigma.

Intorno a noi si stagliano i recinti innalzati da un esanime diritto “market friendly”, amico del mercato[28], che oscura la vista delle moltitudini espulse dal sistema e ridotte a “vite di scarto”; davanti a noi, in un futuro prossimo, si pone la speranza di un diritto vivo “accompagnato dalla lotta concreta contro l’ingiustizia”[29], strumento di edificazione della nuova società del “commons collaborativo”[30].

NOTE
[1] Sul concetto di estrazione di valore, si vedano le splendide pagine scritte dal mai abbastanza compianto Luciano Gallino, Finanzcapitalismo – La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2013, p. 5 : “Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione”.

[2] Saskia Sassen, Espulsioni – Brutalità e complessità nell’economia globale, Bologna, Il Mulino, 2015.

[3] S. Sassen, cit., p. 16.

[4] S. Sassen, cit., p. 37.

[5] Sull’autentica truffa del mercato del carbonio generata dal protocollo di Kyoto, si rimanda alle splendide pagine di Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà – perché il capitalismo non è sostenibile, Milano, Rizzoli, 2015, pp. 296-311, in cui il sistema delle quote di emissione e delle compensazioni carboniche viene significativamente definito “il mercato dell’inquinamento”.

[6]Le economie si contraggono, le espulsioni aumentano”: questo l’eloquente titolo del primo capitolo del citato saggio di Sakia Sassen, Espulsioni, pp. 19-90.

[7] Sul nesso sempre piu’ intenso tra disoccupazione ed esclusione sociale e sulle conseguenze individuali, familiari e sociali della disoccupazione, si rimanda allo studio collettivo a cura di M. Ambrosini – D. Coletto – S. Guglielmi, Perdere e ritrovare lavoro – L’esperienza della disoccupazione al tempo della crisi, Bologna, Il Mulino, 2014.

[8] Stefano Rodotà, Il terribile diritto – Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino, edizione 2013, p. 76.

[9] Si rinvia all’articolo “Il ritorno del padrone”, Micromega, 5 gennaio 2015.

[10] Resta solo, nella legislazione dell’espulsione, la possibilità per il lavoratore di un ritorno al diritto privato, alla ricerca di una tutela meramente risarcitoria, con tutti i limiti quantitativi e probatori propri di tale meccanismo; per un interessante contributo sul ritorno alla tutela risarcitoria di diritto comune si rimanda al recente articolo di Davide Bonsignorio, Jobs Act: i licenziamenti ingiusti, tra indennizzi minimi e danni ulteriori, in Il fatto quotidiano area pro labour del 9 dicembre 2015.

[11] Rispetto alla proprietà privata e alla proprietà pubblica, fondata sul dominio e sull’esclusione, nella dottrina dei beni comuni prevale il concetto di accesso e di inclusione: “l’essenza dei beni comuni non poteva essere colta dal paradigma della prorietà pubblica (demanio) né da quello della proprietà privata (dominio), caratterizzanti il nostro diritto dei beni, poiché entrambi questi poli sono incardinati sull’esclusione e sulla concentrazione del potere di disporre nelle mani di un soggetto sovrano, sia esso pubblico o privato, da esercitarsi su un oggetto… secondo l’impostazione della Commissione Rodotà, quelli comuni in tanto sono beni in quanto siano accessibili a tutti, declinando quindi la logica dell’inclusione…”, U. Mattei, Beni comuni – un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011, p.83.

Questa la definizione dei beni comuni nel testo del disegno di legge delega pubblicato dalla Commissione Rodotà il 14 giugno 2007 per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, all’art. 1 comma 3 lett. c): “Previsione della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge…sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate…alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque..”

[12] S. Rodotà, cit., pp. 459-498; anche in Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 105-138; tuttavia Rodotà non include espressamente il lavoro quale bene comune.

[13] Ugo Mattei, cit., pp. 53-54

[14] U. Mattei, cit., pp. 80-86.

[15] Espressamente Rodotà definisce i beni comuni quali beni primari necessari a concretamente garantire i diritti fondamentali ed “elemento inseparabile da una persona affrancata dalla dipendenza esclusiva dalla proprietà, in una prospettiva che, seguendo ancora le parole dell’art. 3 della Costituzione, <<congiunge il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese>>”, in Il diritto di avere diritti, cit., p. 120.

[16] Sulla filosofia della praxis in Gramsci intesa come capacità di elaborazione di una visione del mondo che diventi fondamento di una visione rivoluzionaria e pratico-trasformatrice della realtà, si rimanda alla penetrante analisi di Diego Fusaro, Antonio Gramsci – la passione di essere nel mondo, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 57-72; “la filosofia deve diventare politica per inverarsi, per continuare ad essere filosofia….la tranquilla teoria deve essere eseguita praticamente, deve farsi realtà effettuale”, Quaderni, XI, XVIII, 49, 1472.

[17] Reintegrazione diventata residuale sia a seguito della riforma Fornero introdotta con L. 92/2012, sia con il cd “contratto a tutele crescenti” introdotto dal dlgs. 4 marzo 2015 n, 23, e limitata all’eccezionale ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato nel caso di licenziamenti disciplinari.

[18] Tipologia totalmente liberalizzata dal D.L. 34/2014 (cd decreto Poletti), che ha legittimato la stipulazione dei contratti a termine acausali sino ad una durata massima di 36 mesi, vanificando pertanto qualsiasi possibilità di stabilizzazione degli stessi.

[19] Rilevante, sotto questo profilo, e’ l’iniziativa portata avanti fino ad oggi dalla Coalizione 27 febbraio (unione di diverse sigle ed associazioni di autonomi tipici ed atipici), che è arrivata a redigere una “Carta dei diritti e dei principi del lavoro autonomo e indipendente” in 9 punti, quale programma di confronto per la redazione del futuro Statuto del Lavoro autonomo.

[20] Si rimanda a Reddito minimo universale:la via maestra per uscire dalla crisi, in Micromega 11 febbraio 2015.

[21] Sulla legame tra la categoria concettuale di umanità e la teoria dei beni comuni, si veda il recente articolo di Stefano Rodotà, Di che cosa parliamo quando parliamo di umanità, in La Repubblica del 7 dicembre 2015, p. 45.

[22] Ovverosia l’abbandono della logica estrattivista, che ha portato a coniare il termine di “estrattivismo progressista” per definire lo storico atteggiamento della sinistra progressista, che ha preferito lottare per “una piu’ equa distribuzione dei bottini dell’estrazione” piuttosto che per un ribaltamento del modello produttivo, finalizzato ad una drastica riduzione delle emissioni e all’abbandono dell’economia dei combustibili fossili, si veda N. Klein, cit., pp. 244-252.

[23] Si tratta dell’art. 3 del dlgs. 15 giugno 2015, n. 81.

[24] Sui fenomeni del Mobbing e dello straining si rimanda alla completa trattazione di Harald Ege, Oltre il mobbing, Milano, Franco Angeli, 2005.

[25] Analogamente, ad esempio, a quanto già fatto in materia di molestie sessuali sul posto di lavoro, adeguatamente tutelate dalla normativa speciale dettata dal dlgs. 198/2006 (di recepimento della normativa comunitaria) con gli artt. 26 comma 2 (equiparazione delle molestie sessuali alle discriminazioni), 37 e 38 (risarcimento dei danni) e 40 (oneri probatori agevolati).

[26] Rigorosi e stringenti termini di decadenza introdotti dall’art. 32 L. 183/2010 (e successivamente ulteriormente ridotti), con la doppia “tagliola” dell’impugnazione entro 60 giorni dalla cessazione del rapporto (120 giorni in caso di contratto a termine) e del deposito giudiziale del ricorso entro 180 giorni dall’impugnazione stragiudiziale.

[27] Si veda anche l’appello recentemente presentato e sottoscritto da numerosi giuslavoristi nel corso del convegno organizzato a Milano dalla Fondazione Malagugini sull’accesso alla giustizia dei soggetti svantaggiati, riportato nell’articolo del Fatto Quotidiano, area pro labour, 16 dicembre 2015.

[28] U. Mattei, cit., p. 6; “…non è più il diritto a dettare le regole ed i limiti dell’attività economica valutandone (in chiave di giustizia) l’ammissibilità. E’ piuttosto il criterio della compatibilità del diritto con le esigenze dell’attività economica (efficienza) a determinare l’accettabilità. Nella locuzione di moda oggi, che echeggia anche nel discorso pubblico degli economisti opinionisti di casa nostra, il diritto deve essere market friendly, amico del mercato”.

[29] U. Mattei, cit., Introduzione, p. IX.

[30] Sull’ascesa della società fondata sui beni comuni, si rimanda a Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero, Milano, Mondadori, 2014, in particolare pp. 215-240.

(21 dicembre 2015)

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