venerdì 22 gennaio 2016

Quale società per una migliore qualità della vita?

Nel 2015, quindici tra i più quotati giovani ricercatori del mondo sui temi della qualità della vita si sono incontrati periodicamente al Polo Lionello, tra le colline toscane del Valdarno. I ricercatori erano stati selezionati per portare avanti progetti di ricerca su una serie di temi tanto cruciali quanto controversi. Ad esempio: quale modello di pensioni, scuola, mercato del lavoro, spesa pubblica, mass media, funziona meglio per promuovere la qualità della vita dei cittadini? Quest’ultima come viene influenzata dalla diseguaglianza economica? E la diffusione di internet, che impatto esercita sulla qualità della vita?



micromega di Stefano Bartolini e Francesco Sarracino

Era per cercare una risposta a queste domande che la Winter School, ideata da Stefano Bartolini, Luigino Bruni e Francesco Sarracino e finanziata dalla Regione Toscana, aveva selezionato giovani economisti, sociologi, antropologi, psicologi, provenienti da Cina, Stati Uniti, Gran Bretagna, Corea del Sud, Italia, Francia, Svizzera, Sud Africa, e Romania. Il motore dell’iniziativa, l’allora assessore all’agricoltura Gianni Salvadori, riteneva che la Toscana fosse il luogo ideale per una riflessione globale sulla qualità della vita, essendone uno dei simboli riconosciuti in tutto il mondo. E la qualità della vita è un tema caldo, così sentito da avere indotto i vari istituti statistici nazionali del mondo (come il nostro ISTAT) a riformare le proprie statistiche per fornirne una miglior valutazione. Dopotutto, a cos’altro dovrebbero essere finalizzate le scelte economiche, sociali e culturali che facciamo, se non a migliorare la qualità della nostra vita?
Le ricerche della Winter School si sono da poco concluse. Esse considerano una varietà di aspetti della qualità della vita, dalla salute delle persone alla loro felicità, alla qualità della formazione scolastica. Le questioni affrontate sono di rilievo. Vediamole.

Diseguaglianza dei redditi e felicità
Nei Paesi dove le diseguaglianze dei redditi sono più forti la gente è più o meno felice? La ricercatrice Laura Ravazzini dell’Università di Neuchatel mostra che nelle società più diseguali sia gli strati della società più deboli economicamente che quelli più forti godono di  minor benessere. Il messaggio colpisce: il problema dell’alta diseguaglianza non è che divide tra vincenti e perdenti, il problema è che trasforma tutti in perdenti. La spiegazione più plausibile la forniscono altri noti studi che mostrano che le società più diseguali funzionano peggio per aspetti che sono molto rilevanti per la felicità, come maggiore criminalità e più disagi giovanili, maggior solitudine e isolamento, meno fiducia nel prossimo e, in media, una salute peggiore. La diseguaglianza è aumentata rapidamente in Italia negli ultimi 15 anni. Sembra arrivato il momento di un azione decisa per ridurla.

Lavorare più a lungo: effetti sulla salute
Di fronte ai problemi di sostenibilità dei sistemi pensionistici praticamente tutti i Paesi hanno intrapreso la stessa soluzione: aumentare l’età pensionabile. Ma quali sono gli effetti sulla salute del lavorare sempre più lungo? Il dibattito finora oppone due fazioni: da un lato coloro che sono convinti che il lavoro sia soprattutto stress e, quindi, che in età avanzata sia dannoso per la salute. E dall’ altro, coloro che pensano che il lavoro sia soprattutto motivazione, identità, relazioni, e che quindi sia parte della ricetta per mantenersi a lungo sani e giovani. Lo studio di Chiara Ardito, del Collegio Carlo Alberto di Torino, sfrutta con metodologie robuste una base dati Italiana di grande qualità costruita con grandi sforzi e conclude che hanno ragione i primi: le malattie cardiovascolari e la mortalità sono aumentati significativamente a causa della riforma Dini che ha aumentato l’età pensionabile. Alcune categorie sono risultate particolarmente vulnerabili all’aumento dell’età pensionabile, fra questi i lavoratori manuali, con bassi salari e che hanno avuto carriere più intense.

Quindi l’innalzamento dell’età pensionabile non comporta solo risparmi per il bilancio pubblico, ma anche dei costi. Si tratta di un risparmio su certe poste del bilancio pubblico (pensioni) ottenuto trasferendo dei costi su altre poste, quelle relative al sistema sanitario nazionale. Se il saldo per il bilancio pubblico sia positivo o negativo è una questione aperta alla quale questo studio non risponde. Ma i costi dell’aumento della età pensionabile a carico del sistema sanitario nazionale sono probabilmente sostanziali. Infatti, lo studio della Ardito riguarda solo l’aumento delle malattie cardiovascolari e della mortalità, cioè eventi gravi o estremi. Che questi eventi rappresentino la punta dell’iceberg di un peggioramento generale della salute di lavoratori sempre più anziani è più di un sospetto. E questo aggravamento potrebbe pesare molto sulle casse del sistema sanitario nazionale. E poi non è solo una questione di soldi ma anche di qualità della vita. Da questo punto di vista è possibile che un risparmio nei conti pensionistici non valga i grandi costi umani di un peggioramento della salute indotto da un aumento della età pensionabile.

Di quale mercato del lavoro abbiamo bisogno?
Per rispondere a questa domanda il californiano Robson Morgan, che lavora con il guru delle ricerche sulla felicità - Richard Easterlin - è partito dalla constatazione che la crisi economica aveva prodotto perdite di felicità nelle nazioni colpite. Ma ha notato che queste perdite non erano distribuite uniformemente tra i vari Paesi: in alcuni casi vi sono state epidemie di infelicità e malumore collettivo, in altri casi le perdite di felicità sono state più limitate. Morgan ne ha scoperto un motivo confrontando un vasto numero di Paesi: le differenze nel mercato del lavoro. Alcuni tipi di mercato del lavoro avevano funzionato meglio di altri nel proteggere il benessere della gente in tempi di crisi.

Quello che aveva contato era il livello di protezione del posto di lavoro e di spese in politiche attive del lavoro. Tali spese includono quelle per programmi di formazione e riqualificazione del lavoro, di creazione di posti di lavoro, di supporto al collocamento. Questo tipo di spese hanno avuto un impatto significativo nel moderare i danni della crisi. Invece un’elevata protezione del posto di lavoro ha amplificato l’effetto negativo della crisi sul benessere. Questo risultato può apparire sorprendente, ma Morgan lo spiega con il fatto che nei mercati del lavoro più rigidi è anche più difficile ritrovare lavoro nel caso lo si perda. È come se la rigidità del mercato del lavoro amplificasse i rischi connessi alla perdita del posto di lavoro. In altre parole, una ampia protezione del posto di lavoro di fatto crea un mercato del lavoro duale, spaccato tra garantiti - terrorizzati in tempi di crisi dal perdere i loro privilegi - e frustrati - esposti alla flessibilità più selvaggia.

La ricetta migliore sembra essere: elevate spese in politiche attive e pochi vincoli al licenziamento. Questo mix è l’identikit della flexsecurity, inventata originariamente in Danimarca. È questo il modello di mercato del lavoro che sembra vincente, almeno per quanto riguarda la protezione che esso offre dai danni che le crisi economiche producono alla felicità. Questi risultati hanno rilevanza per l’attuale dibattito sul mercato del lavoro nel nostro paese. Il Jobs Act infatti si è concentrato sulla flessibilità ma ha trascurato la sicurezza, cioè gli investimenti in politiche attive del lavoro.

Invidiare da soli
Un’altra questione importante per il benessere delle persone riguarda il ruolo dei cosiddetti paragoni sociali. Per spiegare cosa sono partiamo dall’esempio di un individuo medio, il sig. Rossi. Egli confronta ciò che possiede e il suo stile di vita con quello di un selezionato gruppo di persone che rispetta e alle quali vuole somigliare. Queste persone, dette gruppi di riferimento, determinano lo standard dei consumi a cui il sig. Rossi aspira e persino ciò che considera un bisogno. In questo senso il benessere che il sig. Rossi ricava dai beni che consuma dipende dai paragoni sociali che egli stesso compie. Avere molto può sembrare poco al sig. Rossi se quelli a cui si paragona hanno di più. In altre parole i paragoni sociali sono un potente motore del paradosso della insoddisfazione moderna, secondo cui se da un lato la prosperità migliora la qualità della vita, dall’altro alimenta i paragoni sociali generando infelicità. 

Il polacco Marcin Piekalkiewicz suggerisce un’interessante strategia per ridurre l’impatto negativo dei paragoni sociali: investire in relazioni sociali. Il giovane ricercatore mostra, utilizzando varie banche dati e diverse metodologie, che le persone più ricche di relazioni sociali attribuiscono meno importanza alle comparazioni sociali e ne stima l’effetto: l’interesse per le comparazioni sociali è praticamente annullato per coloro che, ad esempio, vedono i propri amici di frequente, che hanno qualcuno con cui parlare di cose personali e a cui rivolgersi in caso di aiuto, o che svolgono attività di volontariato. In altre parole, Piekalkiewicz mostra che le relazioni sociali non sono solo un collante del vivere insieme ed un motore della crescita economica, ma anche un importante balsamo contro gli effetti collaterali della crescita economica. Il motivo è che la solitudine, la scarsità di relazioni sociali, generano insicurezza e la gente tende a reagire ad essa cercando il successo economico come forma di rassicurazione e sostegno alla autostima.

Questo studio suggerisce che il forte tessuto sociale, comunitario e civile di buona parte dell’Italia (in particolare centro-nord), la vitalità del suo associazionismo, la qualità urbana dei centri storici delle sue città - che offre una coreografia ideale per lo sviluppo delle relazioni sociali - vanno sostenute dalle politiche nazionali e locali. Esse sono infatti componenti essenziali di un disegno di qualità della vita che promuove l’aspetto positivo della socialità e ne limita quello negativo, l’invidia sociale. Su alcuni aspetti, come le politiche per la qualità urbana, il nostro paese sembra segnalare invece un deciso ritardo rispetto a molti paesi europei.

Criminalità, fiducia e mass media
In generale, la qualità delle relazioni intime e sociali ha un impatto fondamentale sul benessere della gente. Le relazioni dipendono da fattori sociali molto più di quanto comunemente si pensi. Steven Gordon, un ricercatore proveniente dal Sud Africa, ha studiato l’effetto della criminalità e della percezione della criminalità sulla propensione delle persone a fidarsi degli altri. Ha considerato proprio il Sud Africa per il proprio studio perchè gran parte degli studi sulla fiducia interessano i Paesi ricchi e sviluppati, mentre ben poco si sa su cosa accade nei Paesi in via di sviluppo. Gordon mostra che la criminalità, ma più ancora la percezione della criminalità, riducono fortemente la fiducia. Che combattere la criminalità sia desiderabile, non è una novità. L’aspetto interessante del lavoro del giovane sudafricano è che mette in guardia contro gli effetti indesiderati di media e campagne pubblicitarie che facciano leva sulle paure delle persone perchè ciò ha effetti deleteri che vanno ben al di là di quanto si possa immaginare. E che le campagne pubblicitarie, per esempio, puntino a stimolare le paure e le incertezze dei consumatori non è una novità. Gli esperti di marketing sono ben consapevoli che gente intimorita è più propensa a consumare e a cercare nel possesso una rassicurazione dalle proprie paure.

Più felici con internet?
Fino a 20 anni fa internet era una realtà lontana per molti. Oggi internet è presente in più dell’80% delle famiglie dei Paesi occidentali e sta rapidamente crescendo in molti Paesi più poveri. L’uso di internet, e in particolare delle reti sociali, ha sicuramente cambiato il modo di interagire con gli altri e reso più democratico ed economico lo scambio di informazioni, ma come ha influito sul benessere delle persone? Solo di recente la disponibilità di dati sull’uso delle reti sociali online ha consentito di investigare questa relazione, ma finora l’esito di queste ricerche è piuttosto ambiguo. Il cinese Peng Nie ha cercato di rispondere a questa domanda usando una banca dati cinese ricca di informazioni. I suoi risultati confermano precedenti studi svolti su dati tedeschi e italiani: un uso intensivo di internet riduce il benessere delle persone. Ma non è solo una questione di utilizzo: anche, e soprattutto, la percezione dell’uso di internet ha un impatto significativo sul benessere delle persone. Se l’uso di internet sottrae tempo ad altre attività, è più probabile che esso venga visto come una fonte di frustrazione, più che di benessere. Il problema è che questo meccanismo rappresenta una trappola: più si dedica tempo alle interazioni online e meno si ha tempo per le relazioni personali faccia a faccia. Allo stesso tempo, però, meno interazioni personali aumentano la probabilità di dedicare più tempo alle relazioni online. Il risultato è un impoverimento delle relazioni sociali non virtuali e una diminuzione del benessere percepito. In altre parole, le reti sociali online sono un utile strumento da tenere sotto controllo, se ci sta a cuore il benessere nostro e delle persone che ci stanno attorno.

La buona scuola
La scuola è una questione cruciale per la qualità della vita dei giovani. Tutti sappiamo che la scuola è spesso una fucina di tensioni, conflitti e malessere. La domanda cruciale è se questo sia necessario ai fini della qualità dell’apprendimento. Simona Cannistraci ha affrontato questa questione partendo dalla domanda: di cosa hanno bisogno i ragazzi per la propria formazione?

Essi non hanno bisogno solo di imparare delle materie. Una gran quantità di studi psicologici dimostra che hanno anche bisogno di almeno altre tre cose fondamentali: auto-stima, buone relazioni con gli altri e autonomia, cioè la sensazione di controllo della loro vita e delle loro attività. Tutto questo è fondamentale per il loro benessere e per una formazione equilibrata, ma una solida base di studi mostra che la scuola italiana attuale non aiuta a soddisfare questi bisogni. E quelle di altri paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna, non sono messe meglio. In questi paesi la scuola invece di promuovere l’autonomia è orientata al controllo degli studenti. Il genuino interesse viene sfavorito in ogni modo, a partire da programmi estensivi e scadenze pressanti che implicano che dedicare tempo alle proprie curiosità, all’approfondimento, si traduce per gli studenti in voti peggiori. Relazioni fortemente gerarchiche con i docenti inducono alla passività e all’obbedienza. In questa situazione lo studio diviene solo un mezzo per trovare un buon lavoro o evitare l’esclusione sociale, i rapporti con gli altri studenti divengono competitivi, la noia e la passività divengono parte integrante dell’esperienza scolastica quotidiana. Insomma, la scuola attuale non condivide la convinzione di Quintiliano che “i giovani non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere.”

E’ possibile creare una scuola in cui il bisogno di educare sia compatibile con i bisogni dei ragazzi di auto-stima, autonomia, e buone relazioni con gli altri?  C’è qualche conflitto tra la soddisfazione di questi bisogni e gli obiettivi attuali della scuola in termini di formazione cognitiva? Alcuni paesi come quelli scandinavi, hanno già risposto di si alla prima domanda e di no alla seconda. Infatti la loro scuola sta cambiando, nel senso che si sta crescentemente orientando verso esperienze dette di scuola partecipativa o apprendimento e insegnamento creativo. Si noti, per inciso, che questi sono anche i paesi che generalmente primeggiano nelle classifiche internazionali del rendimento studentesco.

Questi esperimenti possono funzionare anche in Italia? Per rispondere a questa domanda, la Cannistraci ha organizzato un esperimento di apprendimento e insegnamento creativo con studenti di Psicologia del secondo e terzo anno dell’Università Kore a Enna. Agli studenti è stata data la possibilità di scegliere l’argomento di studio (che doveva essere coerente con il corso), il materiale didattico e le modalità di apprendimento (gruppi di lavoro, studio individuale, uso di computer, lavagne, carta ecc.). Una volta scelti gli argomenti, gli studenti hanno scelto gli articoli scientifici che li interessavano, li hanno analizzati in gruppi di lavoro e hanno riferito e discusso i risultati con l’intera classe e i docenti. Quello che hanno messo in pratica somiglia molto ad una tecnica nota come “apprendere per insegnare (learn to teach)”.

La Cannistraci ha elaborato un sofisticato questionario volto a capire se questa esperienza poteva cambiare la percezione degli studenti del contesto educativo (in termini di apertura, inclusività, piacevolezza, orizzontalità delle relazioni), la loro percezione di competenza e auto-stima, e le loro motivazioni: interesse, curiosità, percezione di essere protagonisti delle propria formazione oppure dipendenza dagli insegnanti e desiderio di compiacerli? Gli studenti hanno risposto al questionario prima e dopo il corso e l’analisi dei dati raccolti mostra che, dopo il corso, l’esperienza universitaria degli studenti era migliorata in media per tutti gli aspetti presi in considerazione.

Questo risultato suggerisce che non c’è alcun motivo per cui un’organizzazione scolastica più aperta e creativa non possa prendere piede anche da noi. Il suggerimento che questo studio offre al nostro paese è di promuovere un cambiamento profondo nel sistema scolastico nazionale, partendo da questo tipo di esperimenti nelle proprie scuole e università. 
In conclusione questi studi danno indicazioni molto nitide su quello che migliora la qualità della vita in campi di importanza fondamentale e fortemente controversi. In particolare sono ricchi di indicazioni per il nostro paese che viene spesso percepito nel mondo come un simbolo della qualità della vita. Questa percezione sembra poggiare su solidi fondamenti perché l’Italia è caratterizzata da una serie di condizioni di vantaggio per la qualità della vita, frutto della nostra storia ma anche di scelte politiche, economiche e sociali passate. Ma questi studi suggeriscono anche di riconsiderare certe scelte presenti che non vanno nella direzione di sostenere il nostro vantaggio in termini di qualità della vita.

(18 gennaio 2016)

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