lunedì 23 maggio 2016

Visioni Militant(i): La pazza gioia, di Paolo Virzì


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collettivo militant
Due donne con problemi giuridici soggiornano presso una comunità terapeutica di recupero per persone con sofferenze psicologiche e disturbi mentali. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), è una (ex) ricca e annoiata donna dell’upper class berlusconiana, isterica, logorroica, impicciona, vanagloriosa, in comunità per reati legati alla truffa e bancarotta; Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), è una proletaria livornese chiusa in sé stessa, violenta e taciturna, obbligata alle cure mentali dopo diversi episodi di violenza, nonché aver tentato il suicidio. Le due non potrebbero essere più diverse, eppure la strabordanza di Beatrice – sempre alla ricerca di qualcuno con cui parlare o, meglio, “civettare” – fa poco a poco breccia in Donatella.
Durante un permesso di lavoro esterno alla comunità, le due fuggono, dando vita ad una sorta di road movie all’italiana sulla falsa riga di Thelma&Louise. Una fuga che, ovviamente, servirà alle due protagoniste come catarsi psicologica andando al fondo dei loro problemi, delle motivazioni e circostanze che li hanno prodotti.

Il film ci consegna un Virzì diverso dal solito. La commedia è sempre più sullo sfondo, mentre assume maggior valore la narrazione di un paesaggio sociale capace di incidere e cambiare le persone. Non è allora una commedia, ma neanche un film di denuncia, da cui il regista si tiene volontariamente alla larga, e fa bene. E’ un film che mischia in maniera equilibrata due elementi: la condizione di classe che forma il comportamento delle due protagoniste, ne Due donne con problemi giuridici soggiornano presso una comunità terapeutica di recupero per persone con sofferenze psicologiche e disturbi mentali. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), è una (ex) ricca e annoiata donna dell’upper class berlusconiana, isterica, logorroica, impicciona, vanagloriosa, in comunità per reati legati alla truffa e bancarotta; Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), è una proletaria livornese chiusa in sé stessa, violenta e taciturna, obbligata alle cure mentali dopo diversi episodi di violenza, nonché aver tentato il suicidio. Le due non potrebbero essere più diverse, eppure la strabordanza di Beatrice – sempre alla ricerca di qualcuno con cui parlare o, meglio, “civettare” – fa poco a poco breccia in Donatella. origina la “malattia”, che finirà per cristallizzare in forma psicologicamente deviata tutti i tic e gli stili di vita delle classi dalle quali le due provengono; e la condizione di donne, ambedue – nonostante le opposte provenienze – vittime “in quanto donne”, sfruttate da un contesto maschile abietto, prevaricatore, carnefice. Siamo ciò da cui proveniamo, e quello che facciamo trova sempre una ragione nelle condizioni di vita che lo hanno lentamente prodotto: questo uno dei messaggi forti del film, e in questo senso il taglio “materialistico” convince in quanto anti-didascalico e anti-schematico. Non c’è redenzione possibile, almeno per la proletaria Donatella Morelli. C’è solo sofferenza, attenuata forse dall’amicizia, ma niente illusione. Una vita serena, dignitosa anche nella povertà, “all’altezza” degli standard sociali, è impensabile per una donna che ha vissuto sulla propria pelle i frutti concreti di questi “standard”. C’è solo violenza inespressa e traumatica, rassegnazione individuale, sconfitta. Se la condizione è vissuta anche dall’esuberante, scontenta e viziata Beatrice, è solo perché al regista preme mettere al centro un valore di amicizia che dovrebbe travalicare le differenze di classe. Un passaggio forse debole, anche se pure per la ricca Beatrice, sostanzialmente “soprammobile” femminile di uomini d’affari che se ne servono scaricandola al momento opportuno, rientra in fin dei conti tra le vittime della società. Anche per lei, la fine non può che essere il ritorno nella comunità, l’espiazione di una pena determinata per tutte e due dalle condizioni d’appartenenza.

Paolo Virzì è uno dei registi più interessanti di questo ventennio. Se ne Il capitale umano sembrava aver abbandonato la commedia capace in qualche modo di rassicurare una condizione umana in difficoltà (da Ovosodo a Tutta la vita davanti a La prima cosa bella, le difficoltà sociali – apertamente di classe – venivano stemperate dalla natura leggera della descrizione), qui la commedia rientra senza però generare un film “leggero”: si ride poco, e il tratto drammatico prevale nettamente. La descrizione dei personaggi è il punto forte, ma d’altronde Virzì è un maestro proprio in questo, nel dirigere gli attori e nel dargli profondità grazie ad una sceneggiatura senza passi falsi. Rimane la sensazione di “via di mezzo”, ma è una via di mezzo alta, senza cedimenti a facili progressismi anti-psichiatrici, ma senza neanche legittimare versioni post-moderne della vicenda umana: siamo ciò da cui proveniamo, le nostre azioni sono il risultato della nostra condizione materiale d’esistenza. Di questi tempi, non è poco.


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