martedì 29 novembre 2016

Referendum, Andrea Giorgis, deputato Pd, dall'ok alla riforma ora sceglie il No. "Il combinato disposto tra riforma e Italicum è una trappola"

controlacrisi
Che il fonte del Sì non stiamo passando giorni splendidi lo sanno anche i bambini. E che tutti, perfino il presidente della Repubblica Mattarella, preferiscano parlare del "dopo voto", è un'altro elemento che si sta sempre più affermando. Quello che accade nelle retrovie ha dell'incredibile però. Personaggi dubbiosi o, al contrario, fino a ieri molto propensi per la riforma della Costituzione, come l'onorevole Andrea Giorgis, alla fine rompono gli indugi e scelgono il No. All'inverso, è stato il caso di certi cosiddetti rappresentanti della sinistra, come Fabrizio Barca, per esempio, che si son fatti convincere dalla bandiera del cambiamento, senza indagare per bene le conseguenze reali. Cosa che sembra voler fare Giorgis. Il referendum del 4 dicembre si conferma come una sventura, prima ancora che per il Paese, per il Pd, che in questo momento ne incarna uno dei suoi fondamenti politici. Pubblichiamo il post Facebook di Giorgis più che come documento politico come documento "tecnico" in cui vengono affrontati i nodi più importanti della cosiddetta riforma. Giorgis, va detto, è un costituzionalista allievo di Zagrelbesky. Non a caso al centro del suo ragionamento c'è il combinato disposto tra riforma costituzionale ed Italicum. Buona lettura.


"Il prossimo 4 dicembre verremo chiamati a pronunciarci sulla riforma costituzionale, approvata dalle Camere lo scorso aprile.
Si tratta di una riforma controversa, che ha diviso i parlamentari e che sta dividendo il Paese e anche il nostro partito. Nel merito – come abbiamo già osservato - presenta luci e ombre: accanto all’introduzione di alcune apprezzabili misure di garanzia (come l’innalzamento del quorum per eleggere il Presidente della Repubblica o il sindacato preventivo sulle leggi elettorali) e all’altrettanto apprezzabile superamento del bicameralismo paritario, contiene diverse sgrammaticature (specie nel riparto delle competenze tra Stato e Regioni e tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale, che potrebbero dar luogo a incertezze e conflitti) e soprattutto la trasformazione del Senato in una seconda Camera dalla incerta natura e dalla probabile fragilità (pur essendo chiamata a partecipare, e in maniera significativa, al procedimento legislativo).
La domanda che sorge spontanea è allora se, nel complesso, mettendo a confronto i pregi con i difetti, essa costituisca comunque un passo in avanti che può contribuire a migliorare la qualità della nostra democrazia rappresentativa e della forma di stato, oppure rappresenti un arretramento che può condurre a un ulteriore indebolimento della sfera politico-democratica.
La risposta non è semplice, perché dipende da molti fattori, di merito e di contesto politico, giuridico e sociale.
La stessa disposizione giuridica, com’è noto, può produrre effetti anche opposti a seconda del contesto in cui è fatta vivere, e per quanto riguarda la forma di governo e l’assetto democratico rappresentativo molto dipende dalle caratteristiche della legge elettorale, dalla conformazione del sistema dei partiti e dalla c.d. legislazione elettorale di contorno.
Una buona riforma costituzionale, inoltre, deve saper unire il Paese e non dividerlo: la sua efficacia e la sua durata nel tempo dipendono infatti dal grado di consenso che ottiene e dal suo essere percepita e vissuta come un nuovo insieme di regole condivise.
Quanto ciò oggi sia problematico è sotto gli occhi di tutti noi. La personalizzazione del voto referendario e la sua trasformazione in un giudizio sul Governo e sulla figura del Presidente del Consiglio e segretario del Pd, e prima ancora l’introduzione di una legge elettorale che riduce gli spazi di partecipazione e determina di fatto l’elezione diretta del governo (in contrasto con la forma di governo parlamentare) non hanno certo contribuito a mitigare il peso dei limiti e delle contraddizioni che la riforma costituzionale presenta. Gli argomenti che sono stati utilizzati per illustrarne gli “obiettivi” e la legge elettorale hanno anzi contribuito ad alimentare l’idea che la consultazione popolare concerna – non solo la riforma del Titolo V e il superamento del bicameralismo paritario – ma soprattutto l’introduzione di un modello di democrazia rappresentativa, caratterizzato dalla progressiva marginalizzazione dei corpi intermedi e dalla verticalizzazione dei processi partecipativi e decisionali, oltre che dall’irrigidimento delle dinamiche parlamentari confinate a una sorta di attività “esecutiva”. L’ipotesi del resto trova autorevole conferma nelle parole di Roberto D’Alimonte, ad avviso del quale l’Italicum e la riforma costituzionale “sono strettamente connesse. Tanto connesse che vivranno o cadranno insieme”. Perché – prosegue D’Alimonte - “E’ la combinazione di Italicum e riforma costituzionale … a creare le condizioni di un diverso modello di democrazia” nel quale, “attraverso il ballottaggio, … i cittadini scelgono direttamente i governi, così come scelgono i sindaci e i governatori” (così su il Sole 24ore del 2.10.2016, e in senso analogo La Stampa del 3.10.2016 e da ultimo il Corriere del 10.11.2016).

Con generosità Gianni Cuperlo si è adoperato per correggere una simile torsione e restringere la portata del quesito, arrivando a strappare un impegno del Vicesegretario, del Presidente del Pd e dei Capigruppo a riconsiderare alcuni aspetti dell’Italicum. E’ un risultato politico, senza dubbio importante, che necessitava però di essere precisato e tradotto in atti concreti (o almeno simbolici) che ne chiarissero il contenuto e ne confermassero l’effettiva realizzazione: per depositare un disegno di legge - a prima firma del Presidente del Consiglio e del Ministro delle riforme (così come a loro prima firma furono presentati l’Italicum e la riforma costituzionale) - che elimini il ballottaggio di lista (sostituendolo con un ragionevole premio di governabilità) e riconduca la legge elettorale nell’alveo della forma di governo parlamentare occorrono pochi giorni, e pochi giorni occorrono anche per incardinarlo in commissione.
Sono trascorse ormai più di due settimane dall’accordo, ma, purtroppo, nulla è avvenuto (né è stata convocata una Direzione del partito, né un’assemblea dei gruppi parlamentari, come pure era stato annunciato).
E ciò che conta, al di là della buona o cattiva fede, è offrire agli elettori elementi di chiarezza sul reale oggetto politico sostanziale del referendum.
Nel corso dei lavori parlamentari - occorre peraltro riconoscere - si sono consumati diversi errori e forzature che anche noi, pur registrandoli e denunciandoli, abbiamo sottovalutato, a partire dal procedere alla votazione finale con l’aula mezza vuota. Più saggio sarebbe stato svolgere un supplemento di analisi e insistere nella ricerca di un accordo, prolungando di qualche mese i lavori e, soprattutto, sganciando le sorti del Governo da quelle della riforma, ovvero, come abbiamo chiesto tante volte, parlamentarizzando maggiormente il confronto.

Purtroppo il trascorrere del tempo e la campagna elettorale anziché sanare queste ferite “procedurali” le stanno acuendo, e giorno dopo giorno sembra farsi sempre più concreto il rischio che la Carta costituzionale veda indebolito il proprio carattere “pattizio” e compromissorio” e accentuato il profilo “di decisione” che una parte impone all’altra.
Anche per queste ragioni, il prossimo 4 dicembre, voterò no, con amarezza e con lo stesso travaglio che avverto in molti compagni e amici che hanno dichiarato di votare sì (e con i quali sento di appartenere alla medesima comunità)".

Nessun commento:

Posta un commento