venerdì 30 dicembre 2016

Lavoratori. "Almaviva, dove è il confine della legalità in un sistema come questo?".

1666 lavoratori e lavoratrici di Almaviva, sede di Roma, licenziati da oggi a domani. L'azienda ha perseguito brutalmente il proprio interesse e profitto, i sindacati non sono riusciti a far valere le proprie ragioni, il governo non c'era e se c'era guardava da un'altra parte.

controlacrisi.org Paolo Andreozzi
1666 lavoratori e lavoratrici da domani senza stipendio, a una media di 3 persone per nucleo familiare (tenendoci bassi, ma visti i nostri tassi di natalità da Paese giustamente estinto), fa esattamente 5000 persone da domani senza reddito, fonte di sostentamento, mentre tutte le altre spese essenziali, mangiare, un tetto sulla testa, le bollette, le rate, i prestiti, vestirsi, muoversi, istruirsi, comunicare, vivere appena più che sopravvivendo, mentre tutto questo continua a chiedere il proprio tributo, che anzi aumenterà dicono le tabelle.
Di che camperanno questi nuovi 5000 senza-entrate?
Le catene malavitose non aspettano altro che nuove disponibilità nell'esercito di riserva della manodopera espulsa dal capitalismo (di marxiana memoria), per arruolare braccia, gambe e teste nelle filiere apparentemente legali del riciclo degli immensi proventi criminali.
Per esempio in uno degli sterminati esercizi di mangeria e beveria che a Roma stessa (e Milano e Napoli) sono sorti come funghi, il 10% in più all'anno negli ultimi cinque, nonostante la crisi di consumi, la restrizione della spesa familiare, le chiusure a raffica delle saracinesche di ristoranti e bar e negozi vari di vecchia data.
Di chi sono quelle vetrine?
Così il capitalismo apparentemente legale spinge forza-lavoro, che ritiene ormai esosa, tra le braccia del profitto illegale. Che però sempre capitalismo è. E sempre gli stessi sono i coordinatori del grande gioco a livello politico, che guardano infallibilmente altrove, finanziario, che aprono altro credito a chi già ne dispone, e giuridico, che sanciscono il tutto col crisma della legge.

Ma dov'è il confine della legalità, in un sistema siffatto?
La Cassazione ieri ha annullato la sentenza di una Corte di Appello, Firenze, che aveva dichiarato illegittimo un licenziamento. Al contrario, dice la Suprema Corte (sezione Di Cerbo), quel licenziamento è del tutto regolare benché dovuto a mere ragioni di profitto imprenditoriale perché, dice l'articolo 41 della nostra Costituzione, "l'iniziativa economica privata è libera".
Peccato che lo stesso articolo al secondo comma aggiunga che essa "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana"; peccato che prima e dopo, dall'articolo 35 all'articolo 47, la Costituzione non faccia altro che prevedere e regolamentare un Sistema-Paese nel quale la dialettica conflittuale tra capitale e lavoro, oggettivamente sbilanciata a favore del primo, sia invece contemperata con principi di democrazia sostanziale, equità sociale, semplice civiltà, senza i quali anche i magnifici primi quattro articoli della Carta sarebbero, scusate, carta straccia.
Ma perfino la Costituzione è cosa umana, e come tale (cortocircuitando Falcone e Calamandrei in parafrasi) se l'epoca vivente non gli dà corpo e senso, finirà; e finirà male. Sta finendo, infatti.

Quel capitalismo rapace, legale all'apparenza o schiettamente criminale che sia, la sta svuotando di contenuti e potere. Ci sta dicendo che la festa del progresso, la speranza di classi e di popolo, la lotta secolare per la giustizia, tutto è bell'e finito.
Una delle stanze dei bottoni del potere economico mondiale, JP Morgan nella fattispecie, dice "cambiate la Costituzione", e noi (centrodestra e centrosinistra insieme, tecnici compresi) ci mettiamo dentro il pareggio di bilancio, la tomba non dico del socialismo ma del più accomodante keynesismo da welfare state. L'opposizione populista mette mai bocca su questo? Macché, stanno tutti a prendersi cappuccino e brioche in uno dei caffè del riciclaggio di cui sopra. Il popolo, la classe, si organizza in una qualche direzione ostinata e contraria? Almeno si ribella? Macché, stiamo tutti a vedere che giro ha fatto per l'Europa un tunisino dopo che il suo passaporto è stato ritrovato a Berlino nei pressi di una strage e prima che lui stesso fosse ammazzato a Milano mentre si faceva passare per calabrese.
Questo lo stato dell'arte in questa fine di 2016, ottavo anno del Signore dalla conclamazione della Grande Crisi che scava la fossa alla Storia Contemporanea, così come l'abbiamo conosciuta e credevamo stabile forse in eterno.
Questo il Paese in cui viviamo.
Che se fosse un Paese, non dico tanto, ma normale, di prima della mutazione antropologica anch'essa ormai conclamata, allora vedrebbe dopo i fatti di Almaviva e della Cassazione almeno un po' di classe, di popolo, di gente, di lavoratrici e lavoratori, di precari, di disoccupati, di studenti, di migranti, di pensionati alla fame, di soggetti più o meno organizzati, di movimenti, di collettivi, scendere in piazza per dire "basta, se questo è il vostro sistema, questo che ha tradito tutto e tutti, noi lo rifutiamo; non sappiamo ancora con cosa lo sostituiremo, non ci abbiamo pensato, non riusciamo a riflettere con la distrazione di massa che ci avete allestito e in cui siamo caduti in trappola; ma questo no, è sicuro, è disumano, è farsesco; vi ostacoleremo in ogni modo che inventeremo man mano, risvegliandoci dalla narcosi, vedendo l'incubo per ciò che è."
Ci disperderebbero i manganelli, ci ridicolizzerebbe il circo mediatico, ma avremmo ripreso la nostra dignità tra le mani.
E basterebbe un ragazzo o una donna o un vecchio, che dietro le finestre vedendoci passare, forse inani ma mai tanto attuali come allora e così, trovasse dentro di sé un buon motivo per scendere ed unirsi. Uno solo, una soltanto.
Allora sì, la partita non dico si riapre, ma almeno cominciamo a giocarcela anche noi.

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