sabato 31 dicembre 2016

L'Onu vota contro le colonie di Israele. Astensione Usa. L'ira di Netanyahu


 israele_onu

 globalproject Shaden Ghazal
"Qui invenit amicum invenit thesaurum” insegna un noto proverbio e Benjamin Netanyahu l’ha capito bene.
Amicizie tradite, nuove alleanze, illusioni e disillusioni, ripicche e vendette: gli ultimi aggiornamenti sembrano quasi parte di un copione di una qualche telenovela argentina se non fosse che parliamo dell’assurda realtà e gli attori in questione decidono le sorti del mondo.

La risoluzione 2334, approvata dal Consiglio di Sicurezza lo scorso 23 dicembre e che ha visto la storica astensione degli Stati Uniti, sta provocando diverse reazioni provenienti da tutto il panorama politico internazionale. 
Essa condanna apertamente “ ogni misura intesa ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est, riguardante, tra gli altri: la costruzione ed espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali”.  
Una simile risoluzione fu avanzata nel 2011, in un periodo molto delicato per il Medio Oriente, in cui un esito diverso avrebbe potuto aprire altri scenari.  In quell’occasione, però, non fu approvata proprio per il veto posto dalla prima amministrazione Obama.
Invece, questa volta già nei giorni precedenti il voto, Israele aveva capito che i fatti sarebbero andati diversamente da quanto sperato: neanche l’opzione “Trump” è servita a cambiare le carte in tavola.  
Il tycoon, infatti, aveva addirittura chiamato il presidente egiziano Al Sisi convincendolo a ritirare temporaneamente la risoluzione sugli insediamenti israeliani, poi passata grazie alla spinta di Senegal, Nuova Zelanda, Venezuela e Malesia. D’altronde va ricordato, restando sul romantico tema dell’amicizia, che Trump, in piena campagna elettorale, promise ad Al Sisi una “leale amicizia, e non solo una semplice alleanza”.
Se è vero che l’ultima astensione americana potrebbe sembrare, a una prima superficiale analisi, un leggerissimo cambio di rotta rispetto alle politiche degli ultimi anni, quello che più stupisce -e preoccupa- è l’intervento di Trump in questa faccenda: basterebbe guardare il profilo twitter del neo presidente americano che chiede a Israele di resistere fino al 20 gennaio, quando tutto cambierà.
Ma tornando a noi.. 
Non è mancata la reazione del capo della Knesset il quale, ha già convocato gli ambasciatori dei paesi che hanno votato a favore,  primi tra tutti Senegal e Nuova Zelanda. 
Tzipi Hotovely, deputata del Ministero degli Esteri, ha annunciato che il governo ridurrà i legami con quei paesi che hanno votato a favore della risoluzione, riducendo le visite diplomatiche e i lavori nelle ambasciate: “i paesi non possono pensare di fare pellegrinaggi in Israele per imparare come combattere il terrorismo o per apprendere diverse tecniche in campo agricolo e nel frattempo le Nazioni Unite si comportano come vogliono”. 
Bibi la Furia, completamente fuori controllo e in preda a deliri di onnipotenza, ma anche a qualche capriccio di troppo, sta mandando un chiaro messaggio al mondo: Israele continuerà ad agire come ha sempre fatto e non teme, o finge di non temere, grosse punizioni da parte della comunità internazionale. 
Del resto, quante sono le risoluzioni Onu che Israele ha violato nel corso degli anni? Tante, troppe.  Da quanto tempo continua a beffarsi dei diritti umani e dei trattati internazionali? 
Soprattutto in un’era in cui la destra israeliana sta ancora più a destra, il Primo ministro israeliano non ha intenzione di fare un passo indietro. 
A testimoniare quanto appena scritto, la notizia di qualche giorno fa del nuovo piano per la costruzione di 618 unità abitative a Gerusalemme Est. 
Nulla di nuovo: quella degli insediamenti è il cavallo di battaglia della politica israeliana, è uno degli elementi di continuità che ha sempre contraddistinto lo stato israeliano. Esattamente come scrive Fulvio Scaglione in un interessante articolo del giugno 2016, “tra il 2009 e il 2014, Netanyahu ha autorizzato ogni anno, come premier, la costruzione di 1.554 nuove case nei Territori, mentre Ariel Sharon ne aveva autorizzate 1.881, Ehud Olmert 1.774 ed Ehud Barak, nel suo primo anno di Governo (il 2000) addirittura 5 mila (dati del ministero israeliano delle Costruzioni)”.
Eppure stiamo entrando nel settantenario della famosa risoluzione 181 che prevedeva l’esistenza di uno stato ebraico, dello stato palestinese e di una zona internazionale che controllasse Gerusalemme. 
Lo stato israeliano sembra quindi soffrire di una gravissima forma di Alzheimer (precoce, considerata la sua giovane età) e non sembra ricordarsi di queste parentesi storico-politiche. 
Infatti, se mai avrete il piacere di chiedere al premier israeliano il perché delle continue costruzioni a Gerusalemme Est, lui risponderà che la Città Santa da 3000 anni è la capitale del popolo ebraico e che quindi è legittimato a costruire quelle che il suo governo chiama “comunità” ma che per il resto del mondo sono colonie, insediamenti. Impazzirebbe Bibi se gli togliessero dalle mani Gerusalemme e se mettessero in dubbio e in cattiva luce l’immagine dello stato che rappresenta, un po’ come fanno i bambini capricciosi con i propri giocattoli. 
Ecco perché ha deciso di punire i paesi che gli hanno voltato le spalle,  interrompendo, per esempio, i programmi di cooperazione con il Senegal, paese che già vive profonde difficoltà economiche. 
La Risoluzione 2334 non è l’unico elemento che ha fatto infuriare il capo della Knesset. 
Qualche giorno dopo, infatti, il segretario di stato americano uscente, John Kerry, ha rincarato la dose con un discorso volto a giustificare il mancato appoggio statunitense in quest’ultima occasione (dove per mancato appoggio si intende la “semplice” astensione e non il voto contrario!).
Ed è proprio Kerry a parlare di eterna amicizia tra i due stati, ricordando a Israele quanto costi all’America questo meraviglioso rapporto: i 38 miliardi di dollari in dieci anni per le spese militari sono solo un piccolissimo esempio. 
Davvero commovente, chi non vorrebbe un amico così?
Ma Netanyahu non si lascia scalfire dalle parole del segretario uscente che invoca nuovamente  la soluzione dei due stati, dichiarata dallo stesso Kerry in pericolo, e ribatte accusandolo di condannare “la politica che autorizza gli ebrei a vivere nella loro storica patria e nella loro eterna capitale, Gerusalemme”. 
Per toglierci ogni dubbio, non troverete nessun trattato   internazionale in cui si parla di Gerusalemme come capitale di Israele, se non nella Jerusalem Law varata dalla Knesset - e valida solo per il parlamento israeliano- nel 1980.
Mi limito a citare solo questa parte della risposta del premier israeliano, evitando, per non cadere nel gusto del patetico oltre che dell’orrido, di riportare l'intero testo in cui parla di Israele come stato che rifiuta la guerra e di se stesso come uomo di pace.
Le amicizie vanno e vengono, ma i veri amori restano e siamo sicuri che tornerà presto il sereno tra Israele e Stati Uniti.  In tutto questo, viene da chiedersi dove siano i palestinesi: l'unica parte non interpellata, quasi come se dovessero sempre subire, impassibili, le conseguenze di scelte prese da altri. 
Se Abu Mazen è convinto che questa nuova risoluzione possa aprire la strada a un ulteriore processo di pace, risulta difficile credere che la società civile palestinese abbia tratto le stesse conclusioni, soprattutto se pensiamo alle generazioni del post Oslo, cresciute nella totale sfiducia nei confronti degli organi istituzionali. 
 Di positivo resta il fatto che nell'ultima settimana si è tornato a riparlare  dei crimini commessi continuamente  dallo stato israeliano. Del resto, tra una risoluzione è un'altra, c'è una difficile quotidianità in cui ogni semplice atto diventa atto di resistenza volto a rivendicare il proprio diritto di esistere. Starà a noi non spegnere i riflettori, soprattutto ora e soprattutto nell'era di Trump.

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