«Sotto a Vetore v’ha un piccol castello / Da zencari fonnato senza fallo, / Che de neve continua gli ha un mantello / E manco a Agosto ce se sente callo; / Da man destra e sinistra è un piano bello / Che quanto val nessun po’ mai stimallo; / Solo ci manca il diletto d’Apollo / Perché ce passa il sole a rompicollo.
Se quivi sgrassatore ovver bandito, / Fosse pure a le forche condannato, / Toccar potesse un albero co’ un dito, / Siria rimesso da colpa o peccato: / Chè un altro luogo sì raso e pulito / Neppur l’avrebbe Bèbbeco fondato / Io te lo lodo e non te lo divieto: / Non l’avria fatto Bèbbeco d’Orvieto.»
(Da La Battaglia di Pian perduto, Berrettaccia di Castelsantangelo, XVI sec.)
La
descrizione di Castelluccio di Norcia e del suo altipiano fornita nel
XVI secolo da tal Berrettaccia – pastore e poeta del quale non si hanno
altre informazioni certe – è probabilmente la più esaustiva e
affascinante che sia mai stata realizzata. Nel poema il pastore narra le
vicende della battaglia combattuta tra Norcini e Vissani all’ombra del Vettore (1522). Oggi quelle popolazioni sono unite dalla stessa tragedia.
Dal
24 agosto il Monte Vettore con le sue crepe e spaccature è divenuto,
suo malgrado, uno dei simboli del terremoto che da quasi tre mesi sta
scuotendo le regioni dell’Appennino Centrale. È importante parlare dei
simboli utilizzati nel racconto del sisma, perché mai come in questo
caso l’aspetto mediatico comporta risultati ed elementi reali. A partire
dal 24 agosto e dalla scelta dell’infausto nome «Terremoto Centro
Italia» con cui è stato battezzato il sisma, sono stati commessi errori
ed imprecisioni che hanno contribuito a confondere le idee su quanto
stava accadendo.
A proposito
del Vettore e di errori, ecco l’immagine di un articolo del 30 ottobre,
piuttosto eloquente. In poche righe possiamo notare che:
1. Si afferma che il Vettore domina Norcia, affermazione errata in quanto semmai domina il piccol castello di Castelluccio di Norcia;
2. La foto ritrae una crepa apertasi sul Monte Porche e non sul Vettore.
Dopo
le imprecisioni è arrivato l’oblio. Dal 24 agosto a oggi l’attenzione
dei media è andata via via scemando, e neanche le violente scosse del 26
e 30 ottobre – che, fortunatamente, non hanno causato vittime – hanno
riacceso a dovere le luci su una situazione invece fortemente
aggravata. Situazione che ad oggi coinvolge decine di migliaia di
persone su un territorio molto vasto. Sono state messe in onda fino allo
sfinimento le immagini del crollo della cattedrale di Norcia, ma non si
è mai fatto un quadro realmente esaustivo dello stato delle cose. Con
questo non si vuole sminuire l’importanza del crollo della Cattedrale o
delle crepe che squarciano la montagna, ma quanto fatto dai media
rischia di far diventare quelle immagini dei feticci della situazione
reale.
L’attenzione
reclamata, per lo più dai piccoli centri, non nasce dalla narcisistica
voglia di apparire in televisione. Ci si è invece accorti in fretta che
dove non arriva la copertura mediatica non arrivano gli aiuti, neanche a
livello minimo. Se non si emerge dalla coltre che copre le zone
colpite, si scompare. E questo può capitare anche ad intere aree: basti
pensare che del versante abruzzese, meno colpito rispetto ad altri ma
comunque fortemente interessato, non v’è quasi traccia da nessuna parte.
Il
racconto si fa sempre più saltuario e scarno e si concentra sui
sensazionalismi delle strade spaccate e sulle news acchiappa-click dei
gattini senza casa. A parte qualche rara eccezione, come lo straordinario lavoro che Loredana Lipperini sta
facendo su Radio Tre, non si parla mai della moltitudine dei paesi
interessati e delle problematiche quotidiane che vengono lasciate
all’autogestione della cittadinanza e ai numerosi volontari. Basta
aprire un qualsiasi quotidiano online per notare che il sisma non esiste
più o, se esiste, assume toni assurdi: su Repubblica.it mentre sto
scrivendo appare solo tra i tag ed esclusivamente come «Sisma Norcia».
Il
terremoto ad oggi è ancora ben presente sia perché le scosse cosiddette
«di assestamento» si susseguono al ritmo di circa una ogni dieci
minuti, sia perché la vita di intere comunità è cambiata radicalmente e
in alcune aree è mutata la morfologia stessa del territorio.
A
fronte di questo quadro la risposta messa in campo dal governo Renzi è
del tutto insufficiente e l’impostazione generale degli interventi
lascia quantomeno perplessi. Non ci sono abbastanza tecnici per
effettuare i sopralluoghi sulle agibilità degli edifici e c’è chi ancora
li aspetta dal primo sisma del 24 agosto. Interi paesi hanno visto la
presenza dello «Stato» solo dopo giorni dalle scosse di ottobre.
Al momento il problema
vero, sia nell’immediato che in prospettiva, è il rischio dello
spopolamento delle zone montane. Questo naturalmente chiama in causa
problemi non più eludibili o rinviabili, come quelli del reddito e di un
welfare adeguato, che avrebbero consentito alle persone colpite di
gestire l’immediato con maggiore serenità e più libertà di scegliere.
Anche nella fase emergenziale attuale, tuttavia, c’è una macroscopica carenza di interventi. Un caso emblematico è la mancanza di
moduli per far proseguire l’attività scolastica nei paesi. Questo
comporta l’iscrizione degli studenti nelle aree marittime con
conseguenti problemi delle famiglie costrette a un pellegrinaggio
giornaliero di decine e decine di chilometri. Quanto potranno resistere i
nuclei familiari in queste condizioni? Chi ha, ad esempio, un attività
commerciale a Camerino e un figlio a scuola a Porto Recanati (circa 80
km di distanza) viene messo di fronte ad una scelta inammissibile. Anche
laddove le scuole sono state garantite con dei moduli, i problemi
derivanti dalla mancata messa in sicurezza delle strade hanno fatto sì
che gli studenti alla fine siano stati trasferiti in blocco altrove.
Ricordate la scuola vanto «ricostruita a tempo di record» di Amatrice?
Il sindaco alla fine ha desistito, in quanto l’edificio non era
raggiungibile da gran parte del territorio comunale e gli studenti sono
finiti a San Benedetto del Tronto. E in questo caso si parla di problemi
derivati in gran parte dalle scosse di quasi tre mesi fa.
La
mancanza di infrastrutture per rimanere nei paesi di origine non vale
solo per gli edifici scolastici ma anche per i nuclei abitativi. A chi
ha la possibilità di organizzarsi autonomamente acquistando una casetta
di legno per rimanere vicino al proprio bestiame, al proprio negozio, o
più semplicemente per rimanere «in zona» viene vietata l’operazione,
perché la competenza è unicamente della Protezione Civile. Per contro la
stessa Protezione Civile non consegna i moduli. Verrebbe da chiedersi
se questa situazione sia frutto solamente della disorganizzazione o di
una precisa strategia.
Sicuramente in paesi abbandonati gli interventi potranno essere meno
rapidi e puntuali e la rottura dei legami sociali delle comunità renderà
eventuali proteste e pressioni più difficilmente organizzabili. Inoltre
emerge chiara una contraddizione: quando Diego Della Valle ha
proposto di costruire una fabbrica di scarpe ad Arquata del Tronto in
poche ore si è trovato un terreno da 5.000 mq dove effettuare
l’insediamento. Come mai viene invece negata la posa di una casetta in
legno (anche su ruote)? Così si esprime Della Valle il 5 novembre: «Oggi
per le persone, per la disperazione che hanno, che è palpabile, aprire
fabbriche è la medicina migliore. Dobbiamo farlo, facciamolo in
fretta».
Ti è crollato il mondo addosso (nel vero senso della parola)? Secondo Della Valle la risposta è un insediamento industriale!
Una
carenza nell’intervento da parte del governo traspare anche dalla
miriade di crowdfunding comparsi per necessità nel giro di poche
settimane, per acquistare articoli per la scuola o altro. Ma se può
essere comprensibile quando a farlo sono piccole associazioni o la
raccolta è per necessità immediate e mirate, la cosa lascia piuttosto
perplessi quando la raccolta fondi nasce dai Comuni o addirittura dal
Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Qui non si critica naturalmente chi
lancia la campagna, piuttosto si vuole sottolineare l’assurdità del
fatto che un Comune o un Parco Nazionale siano costretti a chiedere
fondi a semplici cittadini per affrontare spese e necessità di cui
dovrebbe farsi carico lo Stato. Ma come, non va tutto bene? Il governo
non ha varato un decreto che fornirà a tutti…? No.
Infatti
se c’è al momento una cosa che sta funzionando è proprio l’autogestione
dell’emergenza: non c’è paese o frazione dove la cittadinanza non si
sia adoperata per raccogliere fondi, costituire associazioni,
organizzare attività per i più piccoli o per gli anziani, aiutare le
piccole imprese in difficoltà. Da questo punto di vista la scommessa che
il territorio si troverà davanti nell’immediato è quella relativa alla
creazione di una rete, una comunità che travalichi i singoli confini
comunali. In un’area che per secoli si è affidata alle comunanze agrarie
occorre tornare a fare del territorio bene comune, gli elementi per
farlo ci sono. In questo senso sarà basilare il supporto dal basso dal
resto del paese.
Una
domanda che rimbalza sul web, e fortunatamente non solo, a partire dal
24 agosto è: cosa può fare chi si trova lontano dai luoghi del sisma? La
solidarietà dal resto d’Italia sia sta concentrando al momento
principalmente sulla raccolta di materiale e sull’acquisto di prodotti
enogastronomici delle aziende in difficoltà, è sicuramente un segnale
importante ma nel lungo periodo non sarà (solo) questo l’aspetto
centrale. Mantenere l’attenzione alta e continuare a parlare di quanto
sta accadendo facendo circolare informazioni “di prima mano”. Questa
sarà la base per la costruzione di qualcosa di importante.
Nel
corso della recente Leopolda renziana a Firenze, attivisti e semplici
cittadini sono arrivati dalle Marche dietro allo striscione «Terre in
moto» per chiedere uno stop immediato alle grandi opere, la messa in
sicurezza del territorio e la ricostruzione rapida e immediata delle
zone devastate dal sisma. Anche in questo caso la risposta è stata
all’insegna di cariche e manganelli, prova evidente del fatto che non
puoi permetterti di dire che le cose non vanno. Neanche se sei un
terremotato.
Questo
è un altro aspetto fondamentale: passato lo spaesamento e la paura
iniziale occorre che la popolazione locale sia pronta a fronteggiare le
scelte calate dall’alto, se scellerate o contro il territorio. E vista
l’impostazione iniziale è molto probabile che ce ne sarà bisogno.
Perché, al di la degli spot televisivi che vengono mandati in onda nei
tg con inaugurazioni e strette di mano, il quadro si tinge sempre di più
di tinte fosche. Basta allargare appena lo sguardo per capire che tipo
di gestione del territorio ha in mente il Capitale. Quando viene chiesto
di abbandonare le grandi opere per
dedicare risorse alla ricostruzione rapida e degna dei territori lo si
fa sulla base di dati reali e per evitare pericoli incombenti. Tra
Castelraimondo e Selvalagli (in provincia di Macerata, aree colpite
dall’ultimo sisma, a pochi chilometri dai Sibillini) c’è il serio
rischio che venga costruito un megainceneritore con tanto di camino alto
70 metri nell’area dove sorgeva un cementificio, progetto folle a
prescindere, ma che diventa grottesco vista la situazione attuale. E come non pensare al gasdotto Snam di 687 km che dovrebbe attraversare l’Appennino scorrendo sotto – attenzione attenzione – L’Aquila, Norcia, Visso?
È questo
quello che si vuole «donare» alle terre già stravolte dal sisma? La
strategia sarà quella classica del voler portare lavoro cercando di
speculare sull’insicurezza e la paura di chi ha già perso tutto? Al
momento – parafrasando 54 – «non c’è nessun post terremoto».
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