sabato 31 dicembre 2016

Tangenti, narcotraffico, pizzo: per l'Italia anche il 2016 è stato un altro anno di mafia.

La mafia è ancora viva. Sta bene e continua a comandare su interi territori. Spesso nel silenzio generale. Gli ultimi dodici mesi raccontati attraverso gli eventi che hanno fatto più discutere e quelli meno visibili.

Tangenti, narcotraffico, pizzo: per l'Italia anche il 2016 è stato un altro anno di mafia
L'Espresso Giovanni Tizian
 
Il 2016 è stato un anno di mafia. Come l'anno prima e quello prima ancora. La differenza è che il Paese, oggi, sembra praticamente assueffatto dallo scorrere delle notizie che riguardano le nostre quattro grandi aziende criminali: camorra, 'ndrangheta, cosa nostra e mafia pugliese. L'abitudine crea dipendenza: così la convivenza con il potere criminale è diventata la normalità.

Nell'accettazione di ciò che normale non è, abbiamo perso di vista i danni reali alle persone, alle cose, all'ambiente, che le cosche provocano con i loro business. Non sempre ci sono i morti ammazzati, anche se questi non mancano, a ricordarci che le mafie sono vive e vegete. Spesso si tratta di imprenditori strozzati dall'usura, dal pizzo, o cittadini disperati per le perdite alle slot machine. Spesso, insomma, i corpi dilaniati di questa eterna guerra contro le cosche non si vedono, ma esistono eccome.
Certo, il sangue sul marciapiede fa più effetto che il fallimento di imprenditori onesti che non hanno accettato di pagare tangenti e per questo sono rimasti fuori dai giochi dei grandi appalti. Un mondo dove troppe volte ritroviamo aziende partner delle organizzazioni mafiose. Oppure pensiamo ai giornalisti che quotidianamente vengono intimiditi durante il loro lavoro.


Anche nell'anno che sta finendo non sono mancati sindaci, assessori, parlamentari arrestati per complicità con le cosche. Così come tanti altri municipi sono stati sciolti per il condizionamento dei boss: l'associazione Avviso Pubblico ne ha contati 213 dal 1991 a oggi. Molte volte queste notizie non le abbiamo lette perché relegate alle pagine locali dei quotidiani di provincia. Ecco, messi assieme questi eventi forniscono il quadro inquietante di quanto ancora il Paese sia ostaggio dei clan.

Organizzazioni criminali che, come ha sottolineato all'inizio del 2016 il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, utilizzano sempre di più la corruzione come metodo per imporsi nel mercato. La mazzetta strumento delle cosche, al pari delle pistole. Mafie, in particolare la 'ndrangheta, che oltre a corrompere e a infettare l'economia sana, continuano a essere leader nel narcotraffico in Europa.

Questi fatti e i numeri impressionanti di operazioni, arresti, sequestri e confische (nell'ultimo anno solo la Dia di Reggio Calabria ha sottratto beni per il valore di 1 miliardo) dovrebbero proiettare la questione in cima all'agenda del governo. Ma siamo certi che neppure nel 2017, la lotta alle mafie sarà tema di discussione. Né da parte della maggioranza né della minoranza.

QUARTO GATE
Il 2015 è agli sgoccioli quando scoppia la prima vera grana giudiziaria in casa Cinquestelle. Deflagra in Campania, a Quarto, dove da sei mesi l'amministrazione è pentastellata. Tutto parte da un tentativo di estorsione ai danni del sindaco Rosa Capuozzo. L'autore indagato dalla procura antimafia di Napoli è un consigliere comunale grillino, Giovanni De Robbio, sotto inchiesta per voto di scambio, aggravato dall'aver agevolato il clan di camorra Polverino. De Robbio avrebbe minacciato il sindaco Capuozzo lasciando intendere alla collega del movimento di essere a conoscenza dell'abuso edilizio nell'abitazione del marito. Perché il segreto rimanesse tale avrebbe chiesto l'affidamento della gestione del campo di calcio a imprenditori da lui segnalati nonché la nomina di assessori, funzionari e di un consulente. Se i fatti emergono alla fine dicembre, la valanga di polemiche continuerà per mesi. Dal Pd al centrodestra un unico coro: dimissioni e commissariamento. Nel frattempo il consigliere De Robbio era stato già espulso dal movimento per aver violato il codice etico. E da lì a poco Beppe Grillo avrebbe levato il simbolo dalla giunta di Quarto. La sindaca, interrogata dai pm ma non indagata, ha spiegato che le pressioni di cui è stata vittima non le ha mai denunciate per salvare il Comune.
Quarto in passato era stato sciolto per infiltrazioni della camorra. Uno dei 213 Comuni chiusi per mafia dal 1991. Nel 2016 i consigli comunali sciolti sono stati ben sei. Storie rimaste sotto traccia, piccoli paesi di cui nessuna parla e dove la democrazia è stata sospesa per l'ingerenza delle mafie.

AEMILIA

L'undici gennaio si è alzato il sipario sul maxi processo alla 'ndrangheta emiliana. Settantuno imputati hanno scelto il rito abbreviato. Processati nell'aula allestita alla fiera di Bologna, l'unica in grado di ospitare così tanti imputati. È un momento storico per l'Emilia Romagna, che per la prima volta è costretta a confrontarsi con la dimensione reale del fenomeno mafioso. Un'infiltrazione che in trenta e passa anni è diventato radicamento. Clan, cioè, che hanno scelto la regione più ricca d'Italia come base stabile dei propri affari. Alla sbarra boss, gregari, professionisti, politici e imprenditori. La cosca sotto accusa è quella dei Grande Aracri, originaria di Cutro, provincia di Crotone. L'abbreviato si è concluso con quasi tutte condanne. Destino diverso per i due politici: uno assolto, l'altro prescritto.

Il 23 marzo, invece, inizia a Reggio Emilia il dibattimento del maxiprocesso: 143 imputati, centinaia di testimoni chiamati dall'accusa e dalle difese. E numerosi pentiti da ascoltare. Il processo è ancora in corso.
Il 20 aprile, in seguito all'inchiesta da cui sono scaturiti i processi alla 'ndrangheta Emiliana, è stato sciolto il consiglio comunale di Brescello, il paese di Peppone e don Camillo. È il primo municipio dell'Emilia a subire un provvedimento di questo tipo. È sempre in questo periodo che spunta un nuovo collaboratore di giustizia, Pino Giglio, che con le sue aziende lavora da anni tra Modena e Reggio Emilia. Arrestato con l'accusa di far parte del clan Grande Aracri, ha deciso di vuotare il sacco. Dichiarazioni che hanno riempito pagine e pagine di verbali, molti dei quali ancora top secret.

IL PALADINO

Il 22 gennaio scattano le perquisioni nelle abitazioni e negli uffici di Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità di Confindustria. La notizia dell'indagine sul capo degli industriali siciliani era stata data un anno prima da Repubblica: «C'è un pezzo grosso dell'Antimafia dell'ultima ora che è finito sotto inchiesta per mafia» scrivevano Attilio Bolzoni e Francesco Viviano. Uno scoop che he aperto per la prima volta uno squarcio nel muro di ipocrisia dell'antimafia di facciata. Nel capo di incolpazione la procura di Caltanissetta contesta a Montante: «Per avere concorso nelle attività dell'associazione mafiosa mettendo in modo continuativo a disposizione in particolare di Vincenzo e Paolino Arnone (consigliere e reggente della famiglia mafiosa di Serradifalco, ndr) la propria attività imprenditoriale consentendo al clan di ottenere l'affidamento di lavori e commesse anche a scapito di altri imprenditori, nonché assunzioni di persone segnalate dagli stessi, ricevendone in cambio il sostegno per il conseguimento di incarichi all'interno di enti e associazioni di categoria, la garanzia in ordine allo svolgimento della sua attività imprenditoriale in condizioni di tranquillità, senza ricevere richieste di estorsioni e senza il timore di possibili ripercussioni negative per l'incolumità propria e dei beni aziendali, nonché analoghe garanzie per attività riconducibili a suoi familiari e a terzi a lui legati da stretti rapporti». Delitto che Montante avrebbe commesso a partire dal 1990.

LA MONTATURA

«Forse non siamo stati chiari. Lo Sporting Locri va chiuso». La minaccia ricevuta dall'allora presidente della squadra di calcio a 5 femminile, che milita nella massima serie, aveva fin da subito attirato l'attenzione dei media. Peraltro lo stesso presidente Ferdinando Armeni, d'accordo con tutta la dirigenza, aveva annunciato l'azione più eclatante: ritiro della squadra, causa intimidazioni in stile mafioso. Locri è una piccola realtà, uno di quei luoghi, purtroppo, che pochi conoscono se non per fattacci di cronaca. Così il drammatico annuncio ha provocato una reazione di solidarietà a catena. Mondo dell'antimafia mobilititato, federazione calcio con Carlo Tavecchio pronto a intervenire per salvare quel gruppo che in effetti si era dimostrato essere una vera sorpresa nel panorama sportivo. Una realtà di grandi speranze per il territorio che suo malgrado è finita stritolata in una montatura orchestrata ad arte. I riflettori sul caso di spengono a gennaio, dopo la partita contro la Lazio. Tra il pubblico, oltre a cronisti di tutta Italia, c'era anche Carlo Tavecchio. Attestati di solidarietà, retorica antimafia e sermoni sulla legalità, per poi scoprire che in realtà la 'ndrangheta in questa vicenda non c'entra proprio nulla. Anzi, la procura di Locri ha chiesto l'archiviazione ad aprile. Il procuratore di Locri Luigi D'Alessio ha definito una montatura tutta la vicenda.

NARCOITALIA

Nel 2016 inizia il processo Columbus. Alla sbarra i narcos delle 'ndrine calabresi. L'indagine dell'antimafia reggina e dei poliziotti dello Sco ha svelato la nuova piazza affari della cocaina: New York. E qui che la 'ndrangheta con i suoi uomini tratta le partite di droga con i cartelli colombiani e messicani. Nella Grande Mela le cosche calabresi sono le prime interlocutrici delle famiglie siciliane, che rappresentano la cosa nostra americana, ben raccontata in decine di pellicole cinematografiche. Nel frattempo il flusso di polvere bianca non si è arrestato. Nei porti di Gioia Tauro ma anche in quelli di Rotterdam e Anversa, i narcos calabresi continuano a fare arrivare tonnellate destinate al mercato europeo. È sufficiente leggere le brevi sui sequestri settimanali per capire di che numeri parliamo: solo nel porto calabrese  e solo nel 2016 sono stati bloccati 1500 chili. Una tonnellata e mezzo, tutta questa droga venduta al dettaglio può produrre profitti per miliardi di euro.
Non solo coca. Il Gico della guardia di finanza di Palermo in un'operazione che dura ormai da due anni è riuscito a tracciare il flusso del traffico di hashish dal Marocco. Un traffico che riguarda sia cosa nostra e che la 'ndrangheta. In tre anni sono state intercettare 120 tonnellat di hashish, il cui valore complessivo al dettaglio è stimabile in circa 1,2 miliardi di euro. Il sospetto è che dietro al traffico internazionale di hashish ci possano essere gruppi della jhiad.


PASCOLI CRIMINALI

«E’ stato un agguato sono stato bloccato mentre tornavo da una manifestazione a Cesarò. A un tratto abbiamo trovato dei grossi sassi sulla strada. Neanche il tempo di capire cosa è successo che siamo stati crivellati dalle pallottole. Un uomo della scorta si è buttato su di me, e a salvarci la vita è stato il vice questore Manganaro che per caso era dietro di noi su una volante. Sparando ha messo in fuga gli assalitori». È il racconto che Giuseppe Antoci fa a Repubblica, nelle ore successive all'agguato subito sui Nebrodi. Lui, presidente del parco dei Nebrodi, non ha dubbi: «Sono certo di chi siano i mandanti, sono i mafiosi dei Nebrodi ma anche la 'ndrangheta, perché il protocollo che abbiamo messo in atto qui in Sicilia sarà applicato anche in Calabria». Già da tempo Antoci vive sotto scorta. I clan di quelle zone lo vogliono morto. La sua colpa? Far rispettatare la legge in un'area dove la legge l'ha sempre imposta la mafia. La mafia dei pascoli, per la precisione. Quelle cosche, cioè, che sugli ettari ottenuti in maniera illegale incassavano pure finanziamenti europei. Con i protocolli firmati da Antoci oltre 5 mila ettari sono stati sottratti ai boss, e sono arrivate i primi provvedimenti delle prefetture per bloccare i mafiosi che volevano inserirsi nel business.

INVISIBILI

Il 15 luglio è un giornata particolare. Il the day after della strage di Nizza per mano dell'Isis e il giorno del tentativo di colpo di Stato in Turchia. Intanto è in quelle ore che la procura antimafia di Reggio Calabria ottiene l'arresto della componente “riservata” della 'ndrangheta. Chi sono costoro? Uomini dei clan, alcuni dentro le istituzioni altri esterni ma in grado di condizionarle. Sono gli invisibili, così li definiscono alcuni pentiti. In questa inchiesta il pm Giuseppe Lombardo delinea l'ultimo livello ancora nascosto della 'ndrangheta. Un livello composto da professionisti, dirigenti pubblici e politici. Come il senatore Antonio Caridi: «dirigente ed organizzatore della componente "riservata" della ‘Ndrangheta». Così il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza con cui viene chiesto l'arresto del politico calabrese. Caridi, quindi, punto di riferimento nazionale, di quella che la procura, guidata da Federico Cafiero De Raho, definisce una struttura segreta- impastata di massoneria- e di vertice dell'organizzazione criminale. Un'accusa pesantissima per il parlamentare ex Ncd. Caridi finirà in carcere solo dopo il voto favorevole all'arresto espresso dal Senato. La componente riservata, dicevamo. Un'entità che assomiglia molto a una super loggia massonica. E, del resto, in tempi non sospetti è stato uno dei padrini più influenti della regione a spiegare, intercettato, la mutazione genetica della mafia calabrese: «La ‘ndrangheta fa parte della massoneria» esclamava con il suo sodale qualche tempo fa Pantaleone Mancuso, sovrano di Vibo Valentia.

VIOLENZA E SILENZI

Una ragazza costretta a fare sesso, violentata da un branco, il cui capo era il figlio del boss del paese. Siamo a Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria. La vicenda ha commosso l'Italia. E ha spinto persino la presidente della Camera Laura Boldrini, insieme a Rosy Bindi della commissione antimafia, ad andare a Reggio Calabria per la manifestazione di solidarietà. Una storia di abusi che ci fornisce una certezza: i mafiosi non sono uomini men che meno d'onore. Struprano, ammazzano donne e bambini. Chi vi dice il contrario racconta favole, leggende utili a santificare i padrini. Non è la prima volta che accade. Purtroppo tante ragazzine hanno dovuto subire violenza dagli 'ndranghetisti in erba. Ragazze rovinate per sempre. Che in qualche modo hanno provato a ribellarsi. Nonostante l'omertà che le circondava. E nonostante quel potere che tutti rispettano in religioso silenzio.

MAFIA CAPITALE

Il 2016 è l'anno del processo di mafia Capitale. Le udienze procedono a ritmo spedito E non sono mancate le sorprese. Per esempio, abbiamo scoperto che la deputata del Pd Miacaela Campagna ha la memoria cortissima. La parlamentare- ex moglie di Daniele Ozzimo, assessore Pd alla Casa e coinvolto nella stessa inchiesta e già condannato a due anni per corruzione- con i troppi “non ricordo” sui rapporti con Salvatore Buzzi( il ras delle coop) ha fatto infuriare la presidente della Corte, Rossana Ianniello: «Le ripeto per la quarta volta, mentire sotto giuramento è un reato molto grave» le ha fatto notare la giudice. È probabile che di questa vicenda ne sentiremo parlare anche nell'anno nuovo. Infatti la procura di Roma potrebbe indagarla con l’accusa di falsa testimonianza. Ma detto del comportamento «reticente» della Campagna, è stato, senza dubbio, l'anno di Massimo Carminati.

Per la prima volta ha parlato in aula. Per dire che, sì, il furto al caveu a piazzale Clodio, sede del tribunale, l'ha fatto e che probabilmente tra i tanti soldi c'era pure qualche documento. Questa confessione è la conferma che il potere del “Nero”, così come sosteneva la procura, viene proprio da quel furto, non solo di denaro ma anche di carte con un forte potere di ricatto. “L'Espresso” ha dedicato una copertina a questa vicenda dal titolo "Ricatto alla Repubblica" la settimana prima dell'annuncio di Carminati in aula. Lirio Abbate e Paolo Biondani hanno pubblicato per la prima volta i nomi delle vittime di quel furto. Magistrati, avvocati, professionisti vari, che qualche modo erano legati ai misteri d'Italia.

Il 2016 è anche l'anno del patteggimento di Luca Odevaine, l'altro grande protagonista del mondo di mezzo di Carminati. Odevaine era tirato in ballo soprattutto per il business dell'accoglienza nel centro più grande d'Europa a Mineo, provincia di Catania. Per questi fatti, qualche settimana fa, la procura di Catania ha chiuso la seconda tranche, tra gli indagati compare il nome di Giuseppe Castiglione, sottosegretario in quota Ncd, il partito di Angelino Alfano.

GRANDI OPERE

Expo, Terzo Valico, Torino-Lione, Salerno-Reggio Calabria, ponte sullo Stretto, ricostruzioni post terremoto. Un lungo elenco, interminabile, di opere pubbliche dove le aziende legate a mafia e 'ndrangheta sono riuscite e penetrare. L'anno che se ne va lascia in carico un'indagine ancora in corso, solo in parte svelata: la procura di Roma e quella di Genova hanno mostrato come veniva gestiti i lavori dai general contractor nei cantieri più importanti in Italia. Al centro un imprenditore sospettato di connessioni evidenti con le cosche calabresi. Sull'Expo, invece, le inchiesta hanno certificato ciò che alcune inchieste giornalistiche avevano già ipotizzato: il 70 per cento dei lavori è stato fatto dalle 'ndrine e la mafia siciliana ha contribuito a realizzare alcuni padiglioni. Insomma, l'Esposizione universale ha portato quattrini nelle casse non solo dello Stato ma anche in quelle delle organizzazioni mafiose.

TRATTATIVA STATO MAFIA

A maggio viene assolto anche in Appello il generale Mario Mori. Insieme a lui imputato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano anche l'ex collonnello Mauro Obinu. Un processo parallelo a quello principale sulla Trattativa, ma tasselo essenziale. Perché una delle ipotesi è che in cambio della cessazione della strategia stragista sarebbero stati garantiti da pezzi dello Stato benefici di varia natura a Cosa nostra. E la latitanza di Provenzano – proseguita per undici anni dopo il fallito blitz di Mezzojuso – sarebbe stata il frutto di questo accordo. In pratica Provenzano era ritenuto il garante dell’accordo tra cosa nostra e lo Stato. Il processo principale sulla Trattativa è ancora in corso. In quest'ultimo un anno prima era stato assolto Calogero Mannino. La procura ha presentato appello. Intanto il dibattimento che vede poltici, militari e boss mafiosi accusati di violenza o minaccia a corpo politico o istituzionale dello Stato, prosegue.

LA 'NDRANGHETA PADANA

Il 2016 è l'anno delle sentenze che confermano l'esistenza della 'ndrangheta al Nord. Tra maggio e giugno la Cassazione mette la parola fine su due inchieste che hanno mostrato il potere criminale delle cosche calabresi fuori dai confini regionali. Lombardia e Piemonte, succursali antiche della mafia calabrese. Queste due sentenza diventate defintivie sanciscono inoltre l'unitarietà dell'organizzazione. Esiste ciooè un vertice, chiamato “Crimine”, a cui tutte le famiglie 'ndranghetiste devono fare riferimento. Sia che queste si trovino in Australia, in Canada, in Germania, a Milano, a Torino o a Bologna, sia che si trovino in Calabria. È una rivoluzione per l'antimafia giudiziaria. Perché da ora non sarà più necessario dimostrare in ogni processo che la 'ndrangheta esiste, ripartendo così ogni volta da capo. Questi due verdetti definitivi, insomma, hanno lo stesso valore di quello sul maxiprocesso a cosa nostra istruito dal pool di Palermo.

IN MEMORIA DEL BOSS

L'anno si chiude con la polemica sulla messa in ricordo del boss ucciso a Montreal, in Canada, a maggio scorso. Rocco Sollecito, del clan Rizzuto di cosa nostra, è stato ucciso in una guerra che ormai va avanti da anni. Sollecito era originario di Grumo Appula, provincia di Bari. E' qui che il parroco decide a sette mesi della sua morte, in ocassione della visita del figlio, di organizzare una cerimonia in memoria del padrino. A questo si sono poi aggiunti i manifesti in giro per il paese in cui invitava i cittadini a recarsi a messa per celebrare il boss. La polemica, per fortuna, ha bloccato l'iniziativa del parroco. La messa è saltata e il sindaco del paese ha chiesto al parroco di andare via da Appula.

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