sabato 21 gennaio 2017

La lotta all'evasione fiscale è una bufala.

Da Renzi a Gentiloni il copione non è cambiato: il contrasto a chi non paga le tasse si fa solo a parole. E la Corte dei Conti denuncia: nel 2015 i controlli sono diminuiti del 4 per cento.

La lotta all'evasione fiscale è una bufalaL'Espresso Stefano Livadiotti 
 
Neanche mezza parola. Nelle 123 righe delle dichiarazioni programmatiche lette martedì 13 dicembre davanti ai parlamentari il neo premier, Paolo Gentiloni, non ha fatto un solo riferimento alla questione fiscale. E tanto meno al nodo dell’evasione, vero e proprio cancro del sistema economico italiano, in ciò dimostrandosi perfettamente in linea con il predecessore, Matteo Renzi, che in un intero anno (il 2015) di evasione aveva parlato in tutto otto volte.
Poi qualche volenteroso deve aver fatto notare a Gentiloni come quella che in partenza poteva apparire solo come una pur colpevole dimenticanza rischiasse di trasformarsi in una formidabile gaffe. Così, il nuovo capo del governo ha cercato di metterci una toppa. E ha scelto come occasione la conferenza stampa di fine anno. Solo che, giovedì 29 dicembre non ha fatto che completare la frittata. «Abbiamo diminuito le tasse», ha detto nel pistolotto introduttivo, «recuperando l’evasione». E lesto ha aggiunto: «Non vi riempio di cifre».
Una mossa quasi obbligata per chi è consapevole di aver appena sparato una balla colossale e cerca di evitare di restarci inchiodato. Già, perché nel 2015 la somma che il fisco è riuscito a scovare e a farsi restituire dai ladri di tasse non è aumentata. Al contrario, è addirittura diminuita. Il fatto è che ancora una volta Gentiloni si è accodato al suo predecessore.
Era stato infatti proprio Renzi, nelle settimane precedenti, a strombazzare di un presunto record ottenuto nei confronti dei furbetti della dichiarazione dei redditi, responsabili ogni anno di un ammanco nelle casse dello Stato stimato fino a 180 miliardi di euro dal britannico Richard Murphy, inserito da “International Tax Review” nell’elenco delle 50 persone più influenti al mondo in materia di fisco (la Confindustria parla invece di 122,2 miliardi).

«Il nostro governo è quello che ha ottenuto più risultati nella storia italiana nella lotta contro l’evasione: 14,9 miliardi di recupero», aveva scolpito il 17 ottobre l’allora premier Renzi. Parole, e numeri, in libertà. Basta prendersi la briga di ficcare il naso nella relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato per il 2015 per scoprire come stanno davvero le cose: «L’attività di controllo e accertamento sostanziale», scrivono i magistrati contabili, «ha comportato entrate per complessivi 7,753 miliardi». Cioè la metà di quanto incautamente vantato da Renzi & Co. Ma non basta: altro che record; la performance è addirittura inferiore a quella del precedente anno. Del 3,9 per cento, mette nero su bianco la Corte. Come si spiega la differenza tra la realtà e i successi che i governi Renzi e Gentiloni si attribuiscono nella lotta all’evasione lo dice con chiarezza un documento di 150 pagine elaborato da una commissione di esperti guidata dall’ex presidente dell’Istat, Enrico Giovannini. Il fatto è che sono state indebitamente sommati agli effettivi proventi da riscossione coattiva una serie di versamenti effettuati in seguito ad accertamenti e di pagamenti spontanei di semplici ritardatari, oltreché qualcosa come 4 miliardi di incassi da voluntary disclosure. Se si sottraggono queste cifre, si scende da 14,9 a 7,8 miliardi. Con buona pace di Renzi, di Gentiloni e del loro record farlocco.

A dicembre ha destato curiosità un’inchiesta di Federico Fubini sul Corriere della Sera, dove si documentava come in Italia ci siano più auto di lusso che persone ad alto reddito. In realtà non ci sarebbe stato da sorprendersi poi troppo, se solo si fosse pensato alla vicenda dell’interrogazione parlamentare con cui il 25 febbraio 2014 il parlamentare del Pd Ermete Realacci aveva chiesto all’allora premier Renzi se risultasse vero quanto sostenuto dall’Espresso, e cioè che il governo conosceva per nome e cognome 518 contribuenti che, pur dichiarando meno di 20 mila euro di reddito annuo, possiedono un jet privato. L’allora capo del governo se ne era lavato le mani, delegando a rispondere il suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che aveva fatto, e continua a fare, orecchie da mercante: nonostante 29 solleciti ufficiali, l’ultimo il 14 dicembre scorso, non ha mai ritenuto di rispondere e, restando sulla stessa poltrona nel cambio di governo, si è trascinato appresso senza scomporsi l’imbarazzante pratica. Anche in questo caso, poco da meravigliarsi.

Padoan è lo stesso che il 30 ottobre 2014, in quel di Berlino, ha garantito, riuscendo anche a non arrossire: «L’Italia sta diventando nota per il suo sforzo nella lotta all’evasione fiscale». Lo hanno trattato come l’orso del tiro a segno. «L’accumulo dei debiti fiscali ha assunto proporzioni allarmanti... per il pagamento delle tasse l’Italia è al centotrentasettesimo posto su 189 Paesi», hanno picchiato duro gli esperti del Fmi al termine di una missione romana a ottobre 2015. «I livelli di osservanza della normativa fiscale sono bassi», hanno confermato quelli dell’Ocse solo quattro mesi più tardi.

Cosa farà ora Gentiloni? Dopo la vittoria alle europee del 2014, che gli aveva consentito la stretta su partito e governo, ottenuta grazie alla capacità del Pd di attrarre per la prima volta i voti della piccola borghesia urbana (commercianti, artigiani, liberi professionisti e imprenditori, accreditati dalla banca d’Italia di un tasso di evasione del 56,3 per cento), Renzi aveva stretto di fatto un patto informale con gli evasori. L’innalzamento del tetto all’uso del contante, la cancellazione di Equitalia e la rottamazione delle cartelle sono solo gli esempi più eclatanti. Nel frattempo i controlli sono crollati: secondo la Corte dei Conti quelli della sola Agenzia delle entrate nel 2015 si sono fermati a quota 621 mila (su circa 6 milioni di contribuenti a rischio), con un calo del 4 per cento sull’anno precedente e del 16 per cento sul 2012. E i risultati si vedono. I dati 2014, aggiornati a maggio 2016, dicono che 2 milioni e 928 mila contribuenti (il 7 per cento) dichiarano meno di mille euro l’anno. E solo 31 mila, (lo 0,08 per cento) oltre 300 mila euro. Così, nei conti di Equitalia si è scavato un buco impressionante. Secondo le elaborazioni del Fmi gli arretrati, che al 30 giugno 2015 erano pari a 728 miliardi di euro, continuano a crescere (dai 55 miliardi del 2009 ai 79 del 2014), mentre il tasso di recupero non va oltre il 6 per cento, con il grosso delle pratiche intestato a soggetti falliti, deceduti, cessati, nullatenenti...

Secondo uno studio messo a punto dalla Confcommercio, se gli italiani fossero convinti di trovarsi di fronte un’amministrazione efficiente e severa come quella americana dichiarerebbero d’un colpo 56 miliardi all’anno in più. Ma negli Stati Uniti a fine 2015 mister James Lee Cobb III s’è beccato una condanna a 27 anni di carcere per una frode fiscale da tre milioni di dollari.

Difficile immaginare che Gentiloni voglia incamminarsi su questa strada in un Paese dove la popolazione penitenziaria per reati economici e fiscali è pari a un decimo della media europea. Soprattutto se la scelta del governo per il nuovo vertice di Agenzia delle Entrate-Riscossione, che incorporerà Equitalia, cadrà sul suo attuale amministratore delegato, Ernesto Maria Ruffini. Pronipote di un ex cardinale (Ernesto), figlio di un ex ministro (Attilio), un passato nello studio Fantozzi, Ruffini è soprattutto un cocco di Renzi: ha conquistato il segretario del Pd alla Leopolda 2010, dove dal tavolo di lavoro numero 26 si è sbracciato a favore del fisco amico, venendo poi reclutato come consulente per la dichiarazione precompilata. Per sapere come la pensi è sufficiente sbirciare la prima pagina di un documento dell’ente che guida, datato 2016. Riporta una frase di Adam Smith: «Ogni imposta deve essere riscossa nel tempo e nel modo in cui è probabile che sia comodo per il contribuente pagarla». Ecco: soprattutto comodo.

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