sabato 29 aprile 2017

Fox Piven: “Vi spiego i movimenti di protesta negli Usa”.

Sociologa presso l’Università CUNY di New York, è una delle massime esperte di movimenti di protesta: “Hanno il potere di ritirare collettivamente la propria cooperazione da alcuni arrangiamenti istituzionali”. E ora con Trump, secondo lei, “avranno la possibilità di sviluppo all’interno della logica dei santuari: dai comuni cittadini che danno ospitalità ai migranti illegali fino ai politici locali che bloccano l’implementazione delle politiche del governo. E le città, in particolare, possono diventare luoghi di aggregazione della protesta”.



mcromega intervista a Frances Fox Piven di Nicola Melloni
Frances Fox Piven è Professoressa di Scienze Politiche e Sociologia presso l’Università CUNY di New York. La sua fama è dovuta sia agli studi sull’importanza dei movimenti di protesta nell’ottenere riforme politiche – in particolare il libro scritto con Richard Cloward "Poor People’s Movements: How They Succeed, Why They Fail"; sia al ruolo di attivista tanto nella battaglia per facilitare il diritto di voto quanto nella lotta alla povertà – attraverso quella che fu poi definita strategia Cloward-Piven – al punto da divenire ripetutamente bersaglio di attacchi personali sulle reti televisive ultraconservatrici Fox News.

Iniziamo parlando del tuo lavoro sui movimenti sociali. C’è sempre stato molto dibattito, anche a sinistra, sull’efficacia dei movimenti: le proteste possono bloccare il normale funzionamento delle istituzioni, ma quale impatto politico hanno? Tu hai cominciato a scrivere sui movimenti sociali oltre 40 anni fa, che differenze vedi con quelli attuali, quale tipo di evoluzione c’è stata, quale è la loro importanza?

Lasciami iniziare dicendo che la definizione “movimenti sociali” è molto vaga e io preferisco usare l’espressione movimenti di protesta. La caratteristica più importante insita in questi movimenti è un tipo molto specifico di potere che essi possiedono: il potere del rifiuto o, se preferisci, di sciopero. In altre parole, questi movimenti hanno la capacità di “ritirare” collettivamente la propria cooperazione da alcuni arrangiamenti istituzionali – e così facendo sono in grado di bloccare il funzionamento di quelle istituzioni. Non è un potere specifico al mondo del lavoro: tra gli esempi più importanti ci sono il movimento per i diritti civili qui in America, ma anche i movimenti latino-americani nelle ultime due decadi – che, ad esempio, per far leva sul proprio potere di interdizione hanno occupato le autostrade.
Allo stesso tempo però, pur avendo appunto enfatizzato la forza e il potere dei movimenti di protesta, ho sempre rigettato le posizioni di quegli attivisti che rifiutano di confrontarsi col passaggio elettorale. Nella mia vita ho lavorato sulle riforme elettorali, ho cercato di far aprire il sistema elettorale americano a favore dei poveri e delle minoranze – che sono sotto-rappresentate.  La mia convinzione è che i movimenti di protesta traggano morale e forza dalla presenza di politici eletti che devono fare i conti con quelle proteste, e rappresentarle. Non necessariamente perché siano buoni e ben intenzionati, ma più realisticamente perché la loro base elettorale e i movimenti di protesta si sovrappongono. Ti faccio l’esempio del movimento dei lavoratori: non i sindacati, ma quella grande protesta sociale sotto forma di scioperi che esplose negli anni ’30 qui in America. Quel movimento ebbe successo anche per la presenza di un regime politico (quello di Franklin Delano Roosvelt) che parlava direttamente al mondo del lavoro e si poneva in termini molto critici verso i cosiddetti “economic royalist” (l’oligarchia di possidenti e industrialisti che governava de facto l’America). Roosvelt non aveva nessuna intenzione di legiferare in favore del diritto di sindacalizzarsi, ma proprio perché il movimento aveva avuto una escalation grazie all’appoggio suo e del Partito Democratico, fu di fatto costretto a sostenere una legislazione in tal senso.

Una cosa simile avvenne con il movimento dei diritti civili…

Esatto. La protesta emerse negli anni ’50, nel mezzo di un importante cambiamento demografico – e, quindi, elettorale – in America. A causa dei cambiamenti economici e tecnologici, un grande numero di afro-americani era stato di fatto espulso dagli Stati agricoli del Sud che non avevano più bisogno della loro forza-lavoro. E si mossero verso le città industriali del Nord, dove trovarono un sistema politico che diede loro il diritto di voto – che era, invece, sempre stato negato nel Sud. Politicamente era un fatto molto rilevante perché, essendo gli Afro-Americani concentrati nelle grandi città, il loro voto poteva cambiare i rapporti di forza negli Stati industriali – avevano un peso elevato nell’assegnazione dei collegi elettorali, il cui studio è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi mesi. E così, nonostante molti senatori democratici del Sud fossero razzisti e sostenitori di un sistema politico-istituzionale di apartheid, i candidati presidenziali democratici dovettero adottare una piattaforma politica assai diversa. Nel 1956 i democratici persero le elezioni anche perché il voto nero abbandonò Adlai Stevenson a seguito delle sue posizioni moderate sul tema dei diritti civili – le proteste erano già iniziate con il boicottaggio degli autobus a Montgomery e la popolazione di colore nelle grandi città era già in subbuglio. E così quando Kennedy nel 1960 corse per la presidenza, conscio della situazione, impostò una campagna attenta ai diritti civili per riprendere il voto degli Afro-Americani. Nuovamente, una volta che fu la leadership democratica ad adottare il linguaggio e gli obiettivi del movimento, questo né uscì rafforzato. Lyndon Johnson giunse a far suo lo slogan principale del movimento – we shall overcome – e con la crescita continua delle proteste, i Democratici furono costretti ad una scelta di campo. Non fu una scelta basata solo su aspetti ideali, tutt’altro: Johnson sapeva benissimo – e l’idea lo tormentava – che schierandosi con il movimento per i diritti civili, i Democratici avrebbero perso il Sud. E così, in effetti, fu. Da allora gli Stati del Sud sono stati prevalentemente Repubblicani e, di conseguenza, abbiamo avuto tanti, troppi, Presidenti Repubblicani – incluso un Presidente Democratico del Sud, Bill Clinton, che potremmo definire Repubblicano moderato.
Il punto che tengo a sottolineare è che l’interazione tra le dinamiche all’interno dei movimenti e il sistema elettorale è indispensabile per capire la forza dei movimenti stessi e, successivamente, la loro cooptazione.

Come valuti i movimenti di protesta attuali? Dopo la crisi abbiamo una rinascita dei movimenti di protesta, in Europa e forse ancora di più in America – Occupy, Black Lives Matter, ma anche a livello locale a Chicago, o in Ohio. Eppure non sembrano ottenere, per ora, grandi successi. Quale pensi sia il problema? Forse una mancanza di chiarezza degli obiettivi? In un mondo sempre più complicato, le rivendicazioni rischiano di essere più vaghe rispetto a movimenti del passato che chiedevano lavoro, fine della discriminazione, paghe migliori.


Non sono d’accordo. “Fight for 15” (il movimento per l’innalzamento del salario minimo) aveva degli obiettivi molto chiari, e ha avuto molti e importanti successi anche se solo a livello locale. Black Lives Matter ha sicuramente espanso la portata dei suoi obiettivi iniziali, ma critica essenzialmente il comportamento della polizia. Ho sempre pensato che la maniera in cui le domande dei movimenti sono articolate non sia veramente il punto: tutti sanno quali sono i veri obiettivi. Ricordo una intervista a Martin Luther King, in cui veniva criticato perché le rivendicazioni del movimento per i diritti civili erano troppo vaghe. La replica di King fu netta: coloro che li accusavano di non avere una piattaforma politica ben definita erano semplicemente degli ipocriti. Le rivendicazioni del movimento erano note a tutti.

Che ne pensi degli strumenti a disposizione dei movimenti per far valere nuove rivendicazioni? Ricordo che in un tuo articolo su The Nation facevi riferimento a uno “sciopero del debito”.


Si tratta di una strategia di difficilissima implementazione. Avevo cominciato a pensarci durante l’ondata di pignoramenti immobiliari che ha lasciato tantissime famiglie senza un tetto. Il problema è l’organizzazione di un movimento di quel genere: ogni ordine di sfratto e pignoramento avviene in un momento diverso e come risultato di una diversa azione giudiziaria – ed è quindi un compito proibitivo riuscire a coordinare le forze per ottenere una massa critica che resista a questo genere di azioni. Ma la resistenza alle banche – e lo sciopero del debito – non è impossibile: per essere efficace, una strategia di contrasto alle banche dovrebbe concentrarsi non sulla relazione tra banche e possessori di ipoteca, bensì tra banche e governi locali – che si sono trovati, per tanti motivi, impelagati in montagne di debiti. Al contrario dei proprietari espropriati, i governi locali potrebbero avere non solo l’interesse ma anche i mezzi per resistere alle banche, potrebbero diventare il punto di conflitto.

Parliamo del rapporto tra questi nuovi movimenti e il Partito Democratico: da una parte è vero che l’establishment democratico è stato forzato ad adottare, in parte, il linguaggio della protesta: la diseguaglianza è passata da essere un tema assolutamente tabù, ad argomento di dibattito alle primarie; dall’altra, però, la Clinton, dopo aver sconfitto Sanders, non ha dato spazio alla sinistra del Partito. Non trovi ci siano delle similitudini tra quanto hai detto sulla popolazione di colore che ha abbandonato il Partito Democratico nel ’56 e la working class bianca che non vota Hillary nel 2016? Può essere questo non-voto una leva elettorale potenziale per il futuro?

In realtà, guardando ai mesi precedenti le elezioni, possiamo vedere questa dinamica protesta-voto già in atto. Non mi piace la Clinton, ma la sua piattaforma politica era drammaticamente cambiata durante la campagna elettorale. Aveva cominciato a parlare il linguaggio dei Democratici del New Deal. Non dimentichiamoci che quando Bill e Hillary Clinton si insediarono alla Casa Bianca, lo fecero in nome della Democratic Leadership Council, che era una forza conservatrice e pro-Wall Street all’interno del partito Democratico. Eppure, nella campagna elettorale di Hillary, la retorica e le parole d’ordine del DLC erano sparite. Sono d’accordo quando dici che questa è una nuova stagione di grandi movimenti di protesta – e avesse vinto Hillary probabilmente ora avremmo nuovamente una interazione tra la politica elettorale, la Casa Bianca, il Congresso e la protesta. Pur con tutti i limiti imposti da arrangiamenti istituzionali anti-democratici, che di certo non mancano negli Stati Uniti.

A questo proposito, sono in molti oggi a sottolineare come i regimi politici in cui viviamo siano in realtà post-democrazie dove le elezioni hanno perso parte del loro significato e dove molte istituzioni sono state sottratte al controllo democratico. Se penso all’Unione Europea, abbiamo molte istituzioni non elette. Le Banche Centrali fanno dell’indipendenza politica la loro bandiera. E gli stessi partiti sembrano sempre più sordi alla volontà popolare, più interessati alla raccolta di fondi che, soprattutto in America, è di norma la miglior garanzia di successo. Cosa pensi di questa evoluzione politica?

La realtà è che quel tipo di politica e di rappresentanza politica che abbiamo avuto tra il 1945 e gli anni ‘70-’80 è morta e non vedo come possiamo tornare a quel periodo. In Europa quella situazione, quel tipo di democrazia era anche e soprattutto contingente, legata alla fine della Guerra e all’indebolimento degli interessi organizzati tradizionali, colpiti anch’essi dal conflitto. Ed è per questo motivo che l’Europa è stata molto più attiva degli Stati Uniti nella creazione di un Welfare State avanzato – qui i grandi interessi tanto nella sanità quanto nella proprietà fondiaria e immobiliare non erano stati toccati dalla Guerra e si erano anzi rafforzati. Quel che intendo è che non ho una risposta alla tua domanda, ma quando parliamo delle forme della democrazia dobbiamo tenere a mente il contesto storico.

Ed ora ci troviamo davanti ad un regime politico nuovo e preoccupante, quello di Trump.


Trump è un caso psicologico. Non che sia pazzo, ma penso che abbia comunque un disturbo di personalità – è così vanaglorioso, la sua spavalderia lo può rendere politicamente molto vulnerabile, mente in continuazione, è sfacciato nel suo disinteresse per la legge. Ma non è solo Trump, il problema. Dopo aver vinto le primarie repubblicane, ero curiosa di vedere come si sarebbero comportati i fratelli Kock  (due miliardari super-conservatori). Durante la campagna elettorale si sono rifiutati di appoggiarlo, eppure dopo le elezioni sono comparse molte connessioni tra Trump e i Koch, che hanno diversi uomini di fiducia nella nuova amministrazione. D’altronde, Trump non ha una propria organizzazione, mentre i Koch sono presenti in forza a qualsiasi livello, da quello federale a quello municipale.

Trump sembra rappresentare un nuovo tipo di destra, populista e di protesta, che sembra capace di intercettare la rabbia e il malcontento diffusi. E che sembra porsi in rotta di collisione con il normale funzionamento istituzionale e con l’ordine neo-liberista: il Tea Party ha quasi imposto ai Repubblicani il blocco del governo Federale; in Gran Bretagna lo UKIP ha di fatto dettato l’agenda dei Conservatori, è riuscito ad ottenere la Brexit. Trump non ha perso occasione per attaccare gli accordi di libero scambio.

Non è certo la prima volta che accade: in Europa abbiamo purtroppo già visto una destra che vince rappresentando lo scontento e la rabbia. Allo stesso tempo, il voto di protesta non è andato tutto alla destra. La campagna di Sanders ha avuto molto successo e se fosse stato il candidato alla Presidenza per i Democratici, sappiamo benissimo come l’establishment e Wall Street avrebbero cercato in tutti i modi di minarne la candidatura, proprio perché espressione della protesta. Certo, l’analisi del voto non è ancora completa, ma sembrano comunque esserci pochi dubbi che buona parte della classe lavoratrice bianca che aveva votato Obama nelle due ultime tornate elettorali abbia scelto Trump a Novembre. Quello che posso dire è che esiste un problema piuttosto serio in quella che possiamo chiamare la teoria democratica, e che riguarda la conoscenza, il sapere, l’informazione: perché la democrazia funzioni l’elettorato dovrebbe sapere, anche in maniera imperfetta, per chi e per cosa vota. Ma non è così – è tutto troppo complicato, troppo oscuro. Da una parte, per gli elettori è troppo umiliante dover ammettere la propria ignoranza; dall’altra alcune materie sono effettivamente incomprensibili: è davvero possibile capire la nostra politica finanziaria, ad esempio?

Quale può essere in questo contesto il ruolo della protesta?

Siamo in una terra sconosciuta, e onestamente non ho idea di cosa sia possibile fare. Il problema è che in questo momento storico non capiamo neppure chi sia il nemico, che cosa voglia il nemico. Se non lo sappiamo, se non abbiamo chiaro il suo progetto, contro che cosa possiamo protestare? Tutti questi personaggi portati da Trump a Washington, non li conosciamo, sono ideologi inquietanti, ma qual è la loro agenda politica? So cosa vogliono i banchieri. So cosa vogliono gli industriali. Ma cosa vuole questa nuova destra? E non sappiamo soprattutto come questo nuovo progetto politico si coniugherà con questi interessi già esistenti che dicevo, quale sarà il risultato di questo nuovo regime.
In questa situazione, i movimenti di protesta hanno forse possibilità di sviluppo all’interno della logica dei santuari – realtà locali che si oppongono alla deriva politica nazionale – dai comuni cittadini che danno ospitalità ai migranti illegali fino ai politici locali che bloccano l’implementazione delle politiche del governo. E le città, in particolare, possono diventare luoghi di aggregazione della protesta. Le Università possono diventare santuari di resistenza al potere del governo federale. Ma quanto è possibile resistere, se confrontate da una politica che ha la forza e il potere, ad esempio, di tagliare i fondi?
Yanis Varoufakis ha recentemente detto che l’unica arma a disposizione in questo momento è la disobbedienza di massa a livello locale. E’ una scelta per molti versi logica, ma mi domando, se applicata in America contro la Presidenza Trump, quali potrebbero essere le conseguenze? Probabilmente una durissima repressione. Penso che la protesta contro regimi ostili sia spesso pericolosa, se non anti-producente. Per le ragioni che ho spiegato in precedenza, penso che la protesta abbia successo quando il governo è neutrale o, anche meglio, leggermente favorevole alle ragioni della piazza. La strategia di Yanis, invece, mi preoccupa, a maggior ragione se anche in Europa la destra continuerà ad avanzare. Ovviamente credo fortemente nell’uso della protesta e nell’interruzione del normale funzionamento istituzionale, ma sono scettica verso forme più radicali, verso quello che possiamo definire rivoluzione – la distruzione delle istituzioni esistenti. Che storicamente ha spesso portato a conseguenze imprevedibili e negative.

(28 aprile 2017)

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