mercoledì 21 giugno 2017

Carne e sangue della nostra gente. La chiamano spending review

contropiano 
Cosa ci racconta la relazione sulla Spending Review? Non lasciatevi ancora ingannare dal fascino rassicurante delle parole in inglese, armatevi di curiosità e seguiteci nella decostruzione di questa narrazione tossica dai risultati dolorosi.
Secondo la Banca d’Italia, al 31 dicembre del 2016 il debito pubblico italiano era pari a 2.217,7 miliardi. Lo certifica il Supplemento “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, in cui si evidenzia un aumento di 45 miliardi rispetto a fine 2015, quando il debito ammontava a 2.172,7 miliardi (132,3 per cento del Pil).

Nel 2014 il debito pubblico era di 2.134 miliardi (il 133,8% del Pil). In due anni è cresciuto di 83 miliardi (con relativo aumento degli interessi da pagarci sopra a vantaggio di banche, assicurazioni, fondi di investimento italiani e stranieri possessori dei titoli di debito) ma è aumentato anche il Pil consentendo una riduzione percentuale ma non quantitativa. Quando “tutto il male” (per mutuare i bellissimi romanzi di Stig Larsson) è cominciato, ossia nel 1992, il debito pubblico era “solo” il 105,2% del Pil. Ma da allora è entrato in vigore il Trattato di Maastricht e sono cominciati i governi delle misure “lacrime e sangue” (Amato, Ciampi, Prodi, Berlusconi) che dichiaravano come obiettivo strategico proprio la riduzione del debito pubblico. I risultati ci dicono che in venticinque anni di lacrime e sangue su pensioni, salari, salute, privatizzazioni che hanno impoverito il paese, il debito è aumentato del 27,5% sul Pil.
Ieri è stata diffusa la relazione sulla Spending Review, cioè i tagli della spesa pubblica affidati dopo aver cambiato mano tre volte, al consigliere economico di Renzi, l’israeliano Yoram Gutgeld.
La relazione ci dice che tra il 2014 e il 2016 la spesa pubblica è stata tagliata per 3,6 miliardi nel 2014, 18 miliardi nel 2015, 25 miliardi nel 2016 e si punta a 29,9 miliardi per il 2017. Tagli importanti dunque ma, paradossalmente, non sul piano della spesa controllata attraverso il”metodo Consip” oggi finito sotto processo per lo scandalo sull’assegnazione degli appalti. Qui infatti la spesa è aumentata del 27% (ne riferisce il Sole 24 Ore di oggi a pag.5).
Ma dove sono stati inferti i tagli? Qui viene fuori tutto il carattere di classe della spending review.
Leggiamo infatti dalla relazione che a farne le spese sono state soprattutto le amministrazioni locali e i lavoratori pubblici, diminuiti tra il 2013 e 2016 di ben 84mila unità. E anche in prospettiva, quando si parla di tagli alla spesa si punta come “spesa aggredibile” al personale (il 50% della spesa pubblica aggredibile pari a 164 miliardi) e solo dopo ci sono i 135,4 miliardi (41%) degli acquisti per beni e servizi pubblici (esattamente lì dove ha fallito il “metodo Consip”). Insomma si è tagliato dolorosamente nella carne e nel sangue della gente per poter avere a disposizione un tesoretto da spendere per salvare le banche e finanziare l’aumento delle spese militari.

Ricapitolando. Sono venticinque anni che ci massacrano su ogni aspetto del lavoro e del welfare in nome della riduzione del debito pubblico, ma questo invece di diminuire è aumentato. Il paese da decenni è in avanzo primario (cioè spende meno di quanto incassa) ma va in deficit a causa degli interessi da pagare sul debito (ben 66,3 miliardi solo nel 2016). Scomparso già dagli anni Novanta, il “Bot people”, questi interessi vanno ormai a rimborsare solo banche, fondi di investimento italiani e stranieri, società finanziarie e assicurazioni, cioè interessi meramente ed esclusivamente privati.

Lo Stato e le istituzioni locali (Regioni, Comuni etc.) si sono sempre più de-responsabilizzate dalla gestione dei servizi pubblici esternalizzando e privatizzando a man bassa, lasciando così degradare complesivamente le città e il paese, alimentando il razzismo e la guerra tra poveri per poter condurre più tranquillamente e duramente la “guerra contro i poveri”.
Risultati? Boom della disuguaglianza sociale, della disoccupazione, dell’impoverimento di massa, dello stato di polizia, dell’analfabetismo funzionale e crollo delle aspettative generali del paese (con una emigrazione di italiani all’estero che ormai ha quasi raggiunto quella dell’immigrazione di stranieri in Italia). Per fare cosa? Per compiere quale “destino” (quello di cui ha parlato la Merkel) se non quello di essere un paese subalterno alle oligarchie finanziarie e alle multinazionali che costruito l’Unione Europea, la gabbia dell’euro e spingono sulla militarizzazione e la guerra? Un destino comune agli paesi Pigs che stà perà producendo asimmetrie dolorose e visibili all’interno stesso del nostro paese tra il nucleo integrato con l’Unione Europea (Lombardia, Emilia, parte del Nordest dove c’è quel 20% di imprese che rappresenta l’80% dell’export e del valore aggiunto in Italia) e il resto del paese che sta andando alla malora.
E’ questo il meccanismo da spezzare per rimettere in modo un processo di cambiamento politico e sociale di segno almeno progressista prima ancora che comunista.
Per questo il 1 luglio ci si vede a Roma, per provare con Eurostop a rimettere in campo questo processo, lasciando andare alla deriva la “sinistra” esistente, residuale, ormai inservibile a tale scopo.

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