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Un’intervista comparsa sull’agenzia argentina Paco Urondo
Nel
XX secolo gli operai e i comunisti hanno esercitato una eccezionale
influenza nelle vicende italiane. La storia del PSI, quella del PCI e
quella della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta espongono un
patrimonio imponente di esperienze che ha avuto innanzitutto il merito
di collegare inestricabilmente la dimensione politica e quella sociale
dell’attività delle classi subalterne.
La
lotta per i miglioramenti reali della vita quotidiana si saldava a un
orizzonte di liberazione globale che conferiva forza alle battaglie
sindacali e alla richiesta di riforme. Non a caso, quando questo
orizzonte è venuto meno, è mancata anche la spinta all’unità,
l’intelligenza pratica, l’analisi della realtà e l’innovazione
organizzativa.
Ne
è scaturita una condizione di minorità e di sudditanza che ha abituato
alla frammentazione, alla sfiducia, e alla confusione culturale. In una
parola, da molti anni a questa parte il proletariato italiano risulta
privo di quella indipendenza e autorevolezza politica che ne avevano
fatto uno dei protagonisti maggiori della storia europea e uno dei punti
di riferimento indiscussi del dibattito rivoluzionario internazionale.
Fino
a qualche settimana fa, le elezioni politiche previste per il marzo del
2018 non sembravano proporre alcun elemento di novità sostanziale. Il
processo apparentemente tormentato di riaccorpamento alla sinistra del
PD di una nuova formazione politica zeppa di ex-ministri e
sottosegretari, di magistrati di alto rango e di vecchi e nuovi
professionisti delle istituzioni, è apparso sin da subito un mero
episodio trasformistico tutto interno alla vicenda di un ceto politico
irreparabilmente scollegato dalle classi popolari.
D’altra
parte, il campo dei soggetti in vario modo attivi contro il capitalismo
appariva politicamente disunito e in qualche modo assuefatto (ove con
rassegnazione, ove con orgoglio) alla propria estraneità strutturale
alla contesa elettorale.
In
questo quadro si è inserita l’iniziativa presa dai militanti
dell’ex-OPG napoletano di proporre una lista autonoma e indipendente
intitolata al motto Potere al popolo. Le adesioni sono state molte, e il
compito risulta difficile. La legge elettorale è fatta apposta per
silenziare le minoranze, e impedire l’accesso alla rappresentanza di chi
lotta coerentemente contro il sistema complesso e pervasivo dello
sfruttamento contemporaneo. Inoltre, bisogna ammettere che lo
spostamento del campo decisionale oltre i confini dello stato nazionale
getta una comprensibile ombra di dubbio sulla utilità della presenza in
parlamenti ormai svuotati di ogni funzione politica e sociale.
Le
esperienze di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna hanno generato
molte disillusioni. Ma nulla vieta che l’ostinazione di ricominciare da
capo possa produrre entusiasmo e creatività proprio in Italia, paese
così intriso di storia proletaria e comunista, e così dolorosamente
privo di sperimentazioni efficaci, da quando, nel 2001, l’imperialismo
ha schiacciato il cammino delle nuove generazioni con la repressione
della protesta popolare avvenuta a Genova, nel corso delle giornate di
mobilitazione contro il vertice G8.
Ai
compagni dell’ex-OPG di Napoli, Viola Carofalo e Giuliano Granato,
rivolgiamo pertanto alcune domande, utili a collocare l’iniziativa di
Potere al popolo nello scenario italiano, ma anche in quello della
attualità internazionale. Il lettore deve essere avvertito anche di un
elemento, per così dire, di contesto. I compagni napoletani svolgono in
questo momento un delicato ruolo di mediazione, di cerniera e di
coordinamento fra istanze e esperienze che hanno storie diverse, ma
riconoscono di fatto la propria insufficienza politica. Accetteremo e
capiremo un certo livello di provvisorietà. Ma ci auguriamo di non
scadere nel generico.
Innanzitutto
partiamo dalla parola d’ordine. Potere al popolo. Viene immediatamente
in mente che la parola democrazia significa “potere del popolo”. Ma
torna anche alla memoria la critica marxiana della democrazia borghese e
della funzionalità capitalistica delle sue mitologie formali. Cosa
significa potere al popolo oggi? È solo uno slogan, o ha anche
l’ambizione di condensare in una formula necessariamente sintetica
esigenze e contraddizioni specifiche del nostro tempo?
Potere
al popolo è qualcosa di antico e di nuovo al tempo stesso. È
l’attualità dell’inattuale. Per noi significa l’esercizio effettivo del
potere da parte del popolo, la concretizzazione della possibilità di
decidere sulle questioni che lo toccano. Potere al popolo non è la mera
possibilità di decidere del proprio presente e futuro attraverso un
pezzo di carta in un’urna elettorale. Il ritualismo democratico lo
lasciamo ad altri. Per noi potere al popolo significa democrazia reale,
quella che in alcuni luoghi dell’America Latina hanno cominciato a
chiamare democrazia radicale, nel senso di un ripartire dalle radici,
dal profondo. È democrazia “assoluta”i, partecipazione del popolo
sovrano non solo per la risoluzione di problemi pratici e puntuali,
bensì per immaginare, definire, costruire e controllare
l’implementazione di politiche a livello nazionale e anche
internazionale. È il potere del popolo organizzato che prende coscienza
della sua forza e dei suoi mezzi; che esercita il controllo popolare su
ogni ambito della propria vita, che non lascia, nell’indifferenza, che
“poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessano la tela della
vita collettiva” (Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti). “Potere al
popolo” è però anche un messaggio di per sé. Un messaggio che vogliamo
arrivi a milioni di persone che a marzo si recheranno a votare, visto
che stiamo lavorando affinché lo trovino sulla scheda elettorale.
Indica, in maniera chiara e sintetica, il nostro programma di lavoro, il
nostro obiettivo: in una fase in cui c’è un sempre maggior
irrigidimento della catena di comando, in cui gli spazi di democrazia si
riducono, nel corpo della società, ma anche in tutti i suoi gangli, a
partire dai posti di lavoro, significa rimettere al centro il diritto a
decidere delle nostre vite. Non solo possibilità di dire ciò che si
vuole, ma di fare in modo che le nostre parole possano avere ricadute
concrete, senza che servano come specchietto per le allodole per una
società che ama definirsi democratica e che invece disprezza nel
profondo tutto ciò che viene dalle masse.
Vorrei
concentrarmi adesso sul concetto (se è un concetto) di “popolo”. Nella
storia del movimento operaio questa espressione compare e scompare in
relazione a particolari congiunture storiche e dentro precisi contesti
geografici. Indubbiamente popolo significa qualcosa durante la lotta
antifascista che conduce alla costituzione repubblicana a cui anche voi
vi appellate, e qualcos’altro allorché il conflitto operaio del 1969
mette in discussione il comando capitalistico fin nel cuore dei rapporti
di produzione. D’altronde popolo è termine che denota alleanze e
blocchi sociali abbastanza precisi in America latina, in Africa e in
Asia, e assai più sfumati nell’Europa della destrutturazione, ma non
della scomparsa, del lavoro manuale tradizionalmente associato al
concetto di proletariato. Non vi annoierò con le false e ipocrite
domande sul “populismo”. Ma vi chiedo: quale popolo volete rappresentare
e riunire? In che senso la maggioranza del popolo italiano sarebbe
interessata a una alternativa di sistema al capitalismo contemporaneo?
Fidel
Castro, nella sua autodifesa di fronte al tribunale della dittatura di
Batista, poi data alle stampe col nome di “La storia mi assolverà” (un
testo che andrebbe riletto oggi con grande attenzione, perché da ogni
pagina trasudano un metodo e un’impostazione che sono attualissimi), in
poche righe offre un affresco di cosa fosse all’epoca il popolo cubano,
scattandone una foto, ma andando al di là dell’aspetto meramente
sociologico e indicando una dimensione di soggettivazione, data dalla
lotta. Ci pare possa essere un utile punto di partenza per comprendere
cosa sia “popolo” per noi. Noi crediamo che dieci anni di crisi abbiano
prodotto dei mutamenti di non poco conto, allargando la forbice – non
solo quella della ricchezza – tra chi è in alto e chi è in basso, tra
chi opprime e chi è oppresso, e portando ad un rimescolamento tra gli
ultimi. Assistiamo infatti alla marginalizzazione di fasce sempre più
ampie della popolazione. Parliamo degli “ultimi”, i capri espiatori per
eccellenza, gli immigrati; ma parliamo di tutte le altre e tutti gli
altri che oggi costituiscono gli “esclusi”. Dei “poveri”, autoctoni o
stranieri che siano, contro cui gli ultimi governi hanno scatenato una
vera e propria guerra, volta a far sparire non la povertà, ma gli stessi
poveri dalla vista dei benpensanti e dei turisti. Parliamo dei
lavoratori e delle lavoratrici, che i governi e l’apparato legislativo
provano a mettere gli uni contro gli altri: quelli assunti trenta o
vent’anni fa e che governo dopo governo, contratto dopo contratto,
vedono una riduzione dei propri diritti e una riduzione degli spazi di
democrazia; quelli che a lavorare hanno cominciato da pochi anni e che
diritti e tutele quasi non ne hanno conosciuti; quelli che un lavoro non
lo riescono a trovare e passano le giornate a sistemare e inviare
curricula. Parliamo delle studentesse e degli studenti, inseriti sempre
più in un sistema dell’istruzione che non offre strumenti di
comprensione ed emancipazione, ma nozioni utili ad essere messe a
profitto sui posti di lavoro. E non solo alla fine del percorso di
studi, visto che con le ultime riforme troviamo ragazze e ragazzi di
quindici anni costretti a lavorare gratuitamente presso aziende private
per centinaia di ore all’anno, come parte obbligatoria del loro percorso
scolastico. In ampie fasce di popolazione, questi settori si
autodefiniscono “popolo”. Non siamo noi ad imporre a tavolino l’utilizzo
di questo “concetto”. Lo abbiamo visto all’opera sui posti di lavoro e
nei quartieri popolari, laddove le persone pensano a se stesse e parlano
di sé come “popolo”: quello di chi non ha santi in paradiso, quello di
chi lotta tutti i giorni per arrivare alla fine della giornata, quello
che sogni ne ha, per sé e per i propri cari, ma è cosciente che, se le
cose rimangono così, non si realizzeranno. Un popolo che odia – e in
parte invidia, non nascondiamocelo – chi sta dall’altra parte: il
padrone, il proprietario di casa, i “politici”. Ecco, noi siamo questo
popolo, siamo le “vittime” di questo sistema. Eppure, pur essendo gli
ultimi, su di noi viene scaricato non solo il peso economico ma anche
quello morale della gestione della crisi. Quotidianamente veniamo
infatti additati come colpevoli delle nostre stesse sofferenze. Siamo
quelli che non brillano a scuola perché stupidi, quelli che non trovano
lavoro perché non si impegnano abbastanza, quelli che il lavoro lo
“perdono” perché inadatti alle esigenze di una moderna economia di
mercato. C’è una dimensione di colpevolizzazione tesa a spingerci a
pensare che il “fallimento” sia un fatto individuale. E, di conseguenza,
anche la soluzione dovrà essere individuale. La dimensione di vittime
ci racconta però solo una parte della storia. L’altra è quella di un
popolo che non ci sta, che dà battaglia, che è orgoglioso di ciò che è e
ciò che fa. Cosciente che se il paese va avanti è grazie al sudore
della fronte di milioni di umili. Un popolo che è protagonista di
centinaia di conflitti, per la difesa del territorio, per diritti e
salari sul posto di lavoro, per un’istruzione emancipatrice, per la
libera scelta sui propri corpi, ecc. Un popolo che non si arrende ai
meccanismi di desolidarizzazione promossi dall’alto, ma riesce a
“rimanere umano”, a costruire vincoli di solidarietà, a condividere con
chi sta accanto quel poco che si ha. Noi crediamo ci sia un potenziale
di ribaltamento dell’esistente e che il nostro compito possa essere
quello di costruire spazio e organicità per le esigenze che vengono dal
basso, andando ad articolarle insieme al popolo – e non al posto del
popolo. Il “popolo” non è un figlio che ha bisogno delle cure di un
padre, buono o autoritario che sia. È soggetto e non oggetto della
Storia.
Le
discussioni sulla partecipazione ai parlamenti hanno sempre diviso i
rivoluzionari, e sono state oggetto di accese controversie. I parlamenti
sono stati contestati, sono stati usati efficacemente come tribune, ma
sono anche spesso diventati il perimetro che ha fagocitato in direzione
esclusivamente istituzionale la presunta ricerca di vie nuove al
socialismo. Noi siamo talmente al di là, o all’indietro, di queste
esperienze da rendere tali problemi un non senso storico, oppure il
passato può e deve insegnarci qualcosa?
Noi
crediamo che questi problemi si presentino oggi come ieri. Ma non
esistono piante buone ad ogni clima e a ogni tempo. Soluzioni utilizzate
nei processi rivoluzionari del passato o di altre latitudini non è
detto si confacciano alle necessità nell’Italia del qui ed ora. L’idea
di lanciare la sfida di questa lista popolare nasce dalla volontà di non
lasciare alcuno spazio al nemico senza provare a dare battaglia. Per
cui, anche chi come noi non ha mai partecipato all’agone elettorale, chi
come noi ha spesso e volentieri disertato le urne, ha deciso di
incunearsi in questo spazio. Ci attendono infatti mesi in cui
l’attenzione sarà tutta concentrata sullo scenario elettorale. Di qui la
necessità di squarciare il velo di ipocrisia e di far irrompere i
bisogni e la voce delle masse, costruendo una campagna elettorale che
permetta di trovare espressione a tutte le istanze e le lotte esistenti
nel paese. Vogliamo utilizzare la campagna elettorale, prima ancora di
eventuali tribune parlamentari, come un megafono di ciò che già esiste,
di ciò che è in gestazione e che difficilmente riesce ad uscire da una
dimensione locale e vertenziale. Ma non vogliamo fermarci qui. Pensiamo
che, in caso di elezione, gli eletti di “Potere al popolo” dovranno dare
vita ad un “parlamentarismo de calle”: essere presente sui territori,
costruendo meccanismi di democrazia diretta e partecipativa ovunque sia
possibile. Discutere sui territori e non solo tra addetti ai lavori, né
solo con i gruppi “corporativi” le misure che arrivano in parlamento;
proporne altre che siano frutto dell’elaborazione collettiva, che
vengano “dal basso”. Rendere conto del proprio operato, avvicinando il
proprio più ad un mandato “imperativo”, che a quello “libero” previsto
dalla Costituzione italiana. Da questo punto di vista le esperienze di
questi ultimi vent’anni in America Latina, in Venezuela in primis,
offrono molti spunti utili. Nelle aule, invece, gli eletti dovranno
essere una spina nel fianco di governo e dei gruppi di potere, portando
il “controllo popolare” in Parlamento. Per far questo, ovviamente, non è
sufficiente uno sparuto gruppo di deputati, nemmeno se fossero i
“migliori”; serve, invece, il popolo organizzato che dia sostegno e
articoli il lavoro. Siamo coscienti dei rischi di una possibile
cooptazione. Ma siamo convinti che il miglior antidoto non risieda tanto
in proclami e parole, quanto nella prosecuzione di quel lavoro politico
e sociale che tutti i giorni portiamo avanti. Come dicono spesso i
compagni catalani, “un piede nelle istituzioni e mille nelle strade”. La
dialettica tra “campo popular” e “campo institucional” non la decidiamo
a tavolino; si tratta di andar a costruire un equilibrio mai definito
una volta per tutte. Al contrario negheremmo la dialettica. Ma abbiamo
come obiettivo la costruzione di un movimento popolare e non elettorale.
Per questo, fino a quando pensiamo che una campagna elettorale o un
seggio possano essere utili per favorire questo processo, ben venga
l’impegno su questo fronte. Nel momento in cui dovessero cambiare le
condizioni, bisognerà cambiare anche tattica. Flessibilità tattica,
accompagnata però da una permanenza strategica e alla chiarezza degli
obiettivi sono assi su cui proviamo ad impostare il nostro lavoro. Ci
viene in mente la dedica del Che quando regalò una copia del suo “Guerra
di guerriglia” al presidente Allende: “A Salvador Allende, che con
altri mezzi persegue gli stessi obiettivi”. Senza dimenticare che, per
come sono costruite le istituzioni, comportano limiti e margini di
manovra ristrettissimi. Non è un caso che anche laddove non si sia
proceduto alla via leninista, si sia posta, prima o dopo, la necessità
di trasformarle profondamente.
Nei
vostri manifesti colpisce la rilevanza data alla dimensione del
mutualismo. Perché gli conferite una così grande importanza? Come si
incrocia il discorso sul mutualismo con quello della politica? Vi
ispirate a esperienze precise, anche in campo internazionale, oppure
ricercate una sintesi tutta italiana tra il ciclo comunista storico,
quello della nuova sinistra degli anni Settanta, e l’esperienza ancora
recente dei centri sociali?
Viviamo
in anni in cui dall’alto vengono continuamente promossi meccanismi di
frammentazione e di distruzione di quei vincoli di solidarietà che
tutt’ora sono vivi nelle classi popolari. L’obiettivo è costruire
individui isolati, possibilmente ostili gli uni agli altri. Far leva sui
bisogni, sempre più impellenti, per scatenare competizione e guerra tra
poveri. Noi proviamo invece a dare una risposta diversa. A palesare – e
non solo a dire – che la via d’uscita, il soddisfacimento dei bisogni o
è collettiva o non è. A dimostrarlo coi fatti, col grigio lavoro
quotidiano, con la costruzione di strutture fisiche e politiche di mutuo
soccorso. Perché siamo stanchi delle parole quando sono sganciate
dall’agire quotidiano. Ecco quindi che il mutuo aiuto diventa
immediatamente politico nel senso che, se lo scopo che si riesce a
raggiungere nell’immediato è il miglioramento concreto delle condizioni
di vita, il soddisfacimento di un bisogno, è altrettanto vero che nel
medio periodo si costruiscono rispecchiamento nell’altro, mutuo
riconoscimento, legami di solidarietà: si costruisce, insomma, una
comunità, il cui collante non è solo il posizionamento nella società, ma
anche un metodo di lavoro e un orizzonte da costruire insieme. Inoltre,
riuscire a mettere in piedi strutture di mutuo soccorso, dagli
ambulatori popolari alle camere popolari del lavoro, passando per le
scuole di italiano per immigrati, permette di costruire fiducia nelle
proprie capacità collettive. Laddove l’individuo non può arrivare da
solo, la collettività può. Il mutualismo diventa una palestra per le
masse popolari, grazie alle quali impariamo a esercitare il controllo su
quelle istituzioni che nominalmente sarebbero preposte a garantire i
nostri diritti, a costruire pezzi di autogoverno, a organizzare pezzi di
società. Ed è – non ultimo – uno strumento di “attivazione” delle
energie popolari: in anni contraddistinti dall’apatia, dalla
rassegnazione e dal disinteresse, si comincia insieme un processo in cui
chi è coinvolto sviluppa un desiderio di partecipazione, di
comprensione e di trasformazione dell’esistente. È, in piccolo, una
forma di democratizzare, di democrazia assoluta. In questi anni abbiamo
avuto punti di riferimento importanti, abbiamo cercato di imparare
dalle esperienze in corso in altri luoghi, dalla Grecia delle cliniche
popolari alle reti di solidarietà dello stato spagnolo, passando per le
esperienze comunitarie in corso in diversi paesi latinoamericani. Senza
dimenticare però che anche la storia del nostro paese è ricca, fonte di
ispirazione e riflessione. Proprio a Napoli, ad esempio, è tutt’ora viva
la memoria della “Mensa dei bambini proletari”, attiva per tutti gli
anni ‘70. E poi c’è un mondo, tradizionalmente anche distante dal
nostro, che abbiamo incontrato e imparato a conoscere. Parliamo di
cristiani di base, associazioni laiche, impegnate quotidianamente nel
non lasciare soli gli ultimi, che siano i senza tetto o gli immigrati.
Con loro andiamo al di là dell’intervento assistenziale, abbiamo
costruito una “rete di solidarietà popolare” e dato vita a momenti di
lotta contro gli interventi securitari dello Stato.
Nel
vostro movimento la presenza delle donne è evidente. In Italia, il
femminismo è stato una componente determinante del ciclo di lotte degli
anni Settanta. Poi si è trasformato in una sorta di cultura
universitaria che non ha saputo contrastare la rivincita del patriarcato
consumata nelle coscienze e nella vita quotidiana durante gli anni
Ottanta e Novanta. Qual è la vostra visione del femminismo? Come si
incrocia nella lotta il pensiero di genere con il pensiero di classe?
Il
pensiero di genere, pur non esaurendosi in esso, è già pensiero di
classe! Questo perché se il meccanismo del lavoro e dello sfruttamento
attuale non ha “inventato” la subordinazione della donna all’uomo, ha
però saputo ben sfruttare l’eredità delle società che l’hanno preceduto,
pretendendo dalla componente femminile lavoro a buon mercato o
addirittura estorcendo lavoro gratuito. Ci riferiamo al fatto che le
donne giocano un ruolo di primo piano nel cosiddetto esercito
industriale di riserva, vengono assorbite ed espulse dal mercato senza
soluzione di continuità e, per giunta, sono gravate dal lavoro
domestico, che ancora viene largamente considerato come un onere che
deve ricadere praticamente solo sulle spalle della “donna di casa”,
madre, moglie, figlia o sorella che sia. Per queste ragioni pensiamo che
nessuna emancipazione sia possibile senza rimuovere in prima istanza
gli impedimenti materiali che la determinano, senza cioè che sia
garantito alla donna un degno salario, servizi sociali che consentano
effettivamente di liberarsi del lavoro di cura (ospedali, asili nido,
etc.), soluzioni abitative alternative e gratuite, necessarie a
sottrarsi a eventuali violenze e abusi che spesso si perpetuano tra le
mura domestiche, consultori e sportelli medico/legali in grado di
sostenerne le scelte nel campo della riproduzione, dell’interruzione e
della prevenzione delle gravidanze, etc. Ovviamente lo sfruttamento e la
subordinazione non si esauriscono nel piano materiale (alle donne viene
ancora oggi negata la piena libertà sul loro corpo e sulla loro
sessualità, sono oggetto di rappresentazioni inferiorizzanti e di
violenza psicologica) per questa ragione alla battaglia su questo
fronte, sui diritti, sul salario, sull’accesso ai servizi sociali, va
associata una battaglia sul piano culturale, che alimenti la
consapevolezza della propria condizione e faccia sì che si possano
progettare collettivamente i percorsi efficaci per superarla.
Nell’ambito di questa battaglia uno degli strumenti possibili da
impiegare è quello dell’equa rappresentanza, nello spirito e seguendo
l’esempio delle compagne curde, necessaria a rendere visibile
all’esterno, nel discorso pubblico, la nostra realtà per quella che è:
fatta di uomini e di donne che lottano assieme, senza gerarchie né
primati, senza bisogno di essere “relegati” in settori d’appartenenza.
Se è vero che troppo spesso, purtroppo, negli ultimi decenni, le
“questioni di genere” sono state relegate all’ambito della pura
speculazione, dell’analisi del fenomeno in ambiti ristretti, affrontate
con un linguaggio spesso inutilmente complesso e che parlava a pochi, è
anche vero che, negli ultimi anni sembra essersi diffusa (non solo tra
élite intellettuali, ma tra le “persone comuni”) la consapevolezza del
fatto che la disuguaglianza tra i sessi non è e non può essere soltanto
oggetto di un’analisi astratta e che, soprattutto, non è un capitolo
chiuso, storia passata, ma una faccenda che ci riguarda e che ci
riguarderà ancora se non ci si rimboccherà le maniche per far sì che le
cose cambino.
In
questi ultimi anni la sinistra ha scelto di affidarsi ai magistrati,
sancendo così la subalternità del politico al giuridico e l’assunzione
delle logiche securitarie che hanno preso corpo nella repressione degli
anni Settanta. Ne siete consapevoli? E come vedete la questione? Proprio
nel vostro Sud mancano i diritti elementari, ma abbondano divise,
tribunali e “pompieri” del conflitto sociale che decantano la legalità
borghese. È possibile sbarazzarsi di questa zavorra che impedisce ogni
reale contatto con la massa degli esclusi?
Soprattutto
qui al Sud un giorno sì e l’altro pure si sente parlare di “emergenza
sicurezza”: camorra, mafia, ‘ndrangheta sono una realtà pervasiva e il
loro controllo del territorio è sicuramente un ostacolo bello grosso a
chi come noi è impegnato nella trasformazione dell’esistente. La
soluzione proposta dai governi che si succedono è una militarizzazione
della società. Già da qualche anno abbiamo i militari che pattugliano le
città; negli ultimi provvedimenti legislativi sono state inserite
misure di sicurezza sempre più oppressive nei luoghi pubblici (ad
esempio tornelli e controlli alle stazioni ferroviarie o anche negli
stadi). Le misure “antiterrorismo” sono state la precipitazione ultima
di questo tipo di meccanismi. Si susseguono le notizie dell’espulsione
dei senza tetto o degli immigrati dai centri storici. È stata elaborata
una specifica misura repressiva, il DASPO urbano (che viene dalla
sperimentazione della repressione nelle curve degli stadi), che si è
diretta già più volte contro venditori ambulanti. Tuttavia, ogni volta
la reazione popolare che si sviluppa va in direzione opposta: laddove
c’è la criminalizzazione da parte dello stato, si risponde con una
solidarietà nei confronti di chi è considerato dalla stessa parte della
barricata. Non che la logica securitaria non faccia comunque breccia. Ma
al momento qui per fortuna non sfonda. Anche da questo punto di vista
la criminalizzazione non riesce a sfilacciare i legami di solidarietà
che sono fortunatamente più radicati di quanto qualcuno possa pensare.
Quando diciamo che “potere al popolo” significa poter decidere del
proprio presente e futuro non intendiamo escludere la sicurezza. Non si
tratta di materia da delegare al governo, centrale o locale che sia.
Anche su queste questioni, per quanto sia complicato, bisogna esercitare
il controllo popolare. Non è un caso che, storicamente, laddove i
movimenti sociali e politici sono stati più forti meno spazio trovava la
criminalità organizzata. Si tratta di processi e non di eventi: i tempi
non saranno né immediati né brevi, ma pratiche come quelle del
controllo popolare esercitato nel corso delle ultime elezioni comunali a
Napoli, per contrastare palmo a palmo la presenza di camorristi, per
provare a rompere il muro della paura che blocca tanti e dar loro
fiducia che oltre a Stato e criminalità organizzata esiste altro, sono
un buon viatico per mettersi in cammino.
Voi
dite che Potere al popolo è l’inizio di un percorso che non si farà
demotivare da una eventuale mancanza di voti sufficienti ad entrare in
parlamento. Questo delinea un orizzonte e una attitudine “confederativi”
che, nella sinistra anticapitalistica italiana, non ha mai riscosso
particolare fortuna pratica. Perché la sinistra italiana (quella vera) è
così incapace di unire le proprie forze? C’è bisogno di una rottura
generazionale? C’è bisogno di una rottura linguistica? Perché tutte le
soggettività che, in anni precedenti, hanno cavalcato la tigre della
discontinuità sono finite nell’insignificanza politica?
Le
cause di un’incapacità della sinistra ad unirsi sono molteplici e
meriterebbero ben altro spazio. Certamente, l’assenza di ampie
mobilitazioni politiche e sociali produce mostri anche da questo punto
di vista, dando spazio ad una litigiosità di gruppi sempre più piccoli e
sempre meno legati a quei soggetti che pure – a parole – tutti dicono
di voler rappresentare. I progetti che la sinistra ha messo in campo
negli ultimi anni sono stati sempre percepiti come progetti elettorali e
basta. Non il tentativo di costruzione di un nuovo progetto, ma la
sommatoria di organizzazioni preesistenti che avevano come obiettivo
arrivare in Parlamento. In questo è ovvio che c’è responsabilità anche
da parte di chi queste “confederazioni” le ha promosse. Noi abbiamo
provato a ripartire da cose banali, ma paradossalmente scomparse
dall’orizzonte di una certa sinistra. Siamo tornati alle masse, per
ricostruire quella connessione sentimentale che si era rotta ormai da un
bel po’. Proviamo giorno per giorno a metterci in ascolto. A capire.
Non siamo testimoni di Geova con un verbo da portare a masse di
infedeli. “Camminare domandando”, come dicono gli zapatisti. E così
facendo abbiamo imparato tantissimo; abbiamo fatto autocritica e provato
a mettere quello che ci sembrava di aver imparato dalle masse a
disposizione di tutti. Lo facciamo mettendo di lato la nostra identità,
che non serviva a nulla se non a rassicurare noi stessi. Non la
dimentichiamo, né tanto meno la rinneghiamo. Ma non la agitiamo come
un’arma capace di convincere per il solo suono di parole evocative (tra
l’altro sempre meno, soprattutto tra le giovani generazioni). Al
disoccupato, allo studente che non ha una minima prospettiva di futuro,
alla lavoratrice che è appena stata licenziata, all’abitante del
quartiere che lotta contro la devastazione ambientale, non interessa che
ci si proclami di “sinistra”. Anche perché è viva nella memoria di
tutti ciò che coloro che si proclamavano di sinistra hanno prodotto nel
paese: impoverimento, precarizzazione, emigrazione. A noi che siamo in
difficoltà importa poter trovare delle soluzioni ai problemi impellenti.
Interessa migliorare le condizioni materiali di esistenza, ritrovare
una speranza e un orizzonte futuro. Se oggi ci limitassimo a riunire
quelli che si riconoscono in una certa tradizione e che si riconoscono
in una determinata etichetta, ci limiteremmo a costruire uno spazio
assolutamente residuale, marginale e destinato alla scomparsa, più o
meno rapida. Invece stiamo provando a costruire un progetto nuovo,
fondato sulla condivisione di un orizzonte e delle pratiche più che dei
simboli. Il che comporta una serie di rotture rispetto al nostro stesso
passato. Se infatti vogliamo ricostruire una connessione sentimentale
con le masse popolari, bisogna allora essere capaci di parlare una
lingua che sia comprensibile. Che ci piaccia o meno i linguaggi
cambiano, gli strumenti altrettanto e se vogliamo incidere nella realtà e
non limitarci ad essere testimoniali non possiamo non prenderne atto.
“Non siamo nati per resistere; siamo nati per vincere.” ripetiamo
insieme ai compagni baschi.
In
una delle vostre ultime assemblee è stato ascoltato e applaudito con
particolare entusiasmo e rispetto il discorso di un militante
palestinese. Nel vostro programma si parla di pace e disarmo e si esige
la rottura dei vincoli di subalternità alla NATO. Sappiamo che pacifismo
significa tante cose, e sappiamo anche che, proprio in nome di un certo
pacifismo occidentale da salotto, la lotta del popolo palestinese è
stata lasciata sempre più sola. Vi chiedo: che cos’è per voi
l’internazionalismo? E, pensando alla Palestina, ma anche al Venezuela o
alla Catalogna, vi domando: come si fa a scrollarsi di dosso un
approccio al mondo contemporaneo che vede spesso i militanti europei
diffidare della lotta di classe reale e dei punti di contraddizione
effettiva in cui si scarica lo scontro con l’imperialismo?
Per
noi un movimento popolare che voglia trasformare l’esistente e che
stiamo provando a costruire con “Potere al Popolo” o è internazionalista
o non è. Chi pensa che possiamo risolvere i nostri problemi stando
attenti solo a ciò che si muove intorno a noi, non comprende come ciò
che si muove a migliaia di km di distanza possa incidere sulla vita
materiale di milioni di persone qui da noi. Non è un fatto ideologico.
Quando qui volevano chiudere due fabbriche della multinazionale Indesit
per delocalizzare in Turchia, si sono fermati solo davanti alle lotte in
Turchia all’epoca del Gezi Park (che erano anche lotte per i diritti
delle lavoratrici e dei lavoratori e non la mera difesa di un alberello,
come qualcuno l’ha voluta dipingere). E così la tutela del posto di
lavoro degli operai in Italia è dipesa direttamente dal livello dello
scontro che sono riusciti a mettere in campo gli operai in Turchia.
Quando arrivano investitori giapponesi in Repubblica Ceca vogliono
sapere dai funzionari governativi non tanto gli indici salariali –
quelli li trovano senza problemi senza dover fare migliaia di km per
arrivare a Praga – ma il livello di conflittualità, i mezzi di lotta
implementati dai sindacati locali, il livello di “decomposizione” delle
solidarietà tra lavoratori. Proviamo a capire e imparare dai processi
in corso in giro per il mondo. Esperienze geografiche vicine e lontane,
senza avere l’attitudine del giudice che deve decidere se dare o meno il
pollice verso. E senza la ricerca spasmodica di qualche modello da
poter traslare direttamente qui. Crediamo con Mariàtegui che la nostra
strada non sarà “ni calco ni copia”, ma “creaciòn heroica”. Dovremmo
riuscire a scrollarci di dosso una doppia attitudine. Da una parte,
infatti, abbiamo chi si esalta non appena sembra che in qualche luogo
del pianeta si presenti un’alternativa all’ordine esistente, tranne poi
rimanere profondamente deluso, preda della più pesante depressione, non
appena ci sono dei rallentamenti o, peggio, dei passi indietro;
dall’altra chi guarda a ciò che accade nel mondo sempre con un’aura di
superiorità: i processi in corso non sono mai sufficienti, non sono mai
abbastanza “comunisti”. È con questa duplice attitudine da tifosi che
dobbiamo farla finita. Nel nostro piccolo proviamo a farlo cercando di
studiare, capire, sperimentare ciò che vediamo all’opera altrove.
Costruendo la nostra prospettiva dalla nostra stessa storia e dalla
storia dei movimenti di emancipazione in tutto il mondo. Nessuno ha
cambiato il corso della storia ricalcando quello che trovava nei testi
sacri. I bolscevichi, a detta di Gramsci, hanno fatto una “rivoluzione
contro il Capitale” di Marx; Fidel ha messo fine alla dittatura di
Batista, battendo sentieri diversi da quello leninista; Unidad Popular
ha provato a costruire il socialismo in Cile su basi ben diverse
rispetto a quelle del “fuochismo” guevarista; la resistenza palestinese,
malgrado il “De Profundis” di tanti esperti nostrani, dimostra ogni
volta di poter risorgere dalla proprie ceneri; infine, il socialismo
bolivariano in Venezuela non collima per nulla con una serie di
“precetti” che certa sinistra veniva declamando. Se riusciamo a far
comprendere la ricaduta materiale e concreta di quanto accade in un
“altrove” più o meno lontano, allora forse non ci sentiremo più dire che
“abbiamo così tanti problemi qui, che non abbiamo tempo e testa per
pensare a quelli che assillano gli altri popoli del mondo”. Noi pensiamo
ad un internazionalismo che non sia il solo gridare slogan, ma un
lavoro quotidiano e certosino di costruzione di legami, di mutuo
apprendimento. Senza dimenticare la lezione guevariana: riuscire a
sentire sulla propria pelle la sofferenza di qualsiasi essere umano in
qualsiasi parte del mondo per noi rimane la qualità più bella di un
rivoluzionario.
In
Italia e in Europa il capitalismo si ristruttura (come sempre) nella
crisi. Ma la crisi esplosa nel 2008 ha impoverito larghissimi strati
popolari. Sono venuti meno gli aspetti di supplenza sociale assunti
dallo stato borghese europeo nel secondo dopoguerra. Il capitalismo
abbandona le masse al destino dei mercati, amplificando la pressione
oligarchica delle istituzioni sovra-nazionali, e ricattando i popoli con
lo spettro del crollo della vita civile. Ecco il punto. Cosa vuol dire
oggi avere un’altra idea dello sviluppo civile? Potere al popolo
significa questo? E, se significa questo, come è possibile riavvalorare
la dimensione della rottura in un contesto in cui gli elementi materiali
dell’esistenza associata vengono presentati, e appaiono effettivamente,
come indissolubilmente legati al funzionamento dell’economia basata
sulla proprietà privata?
Non
c’è dubbio che le condizioni materiali di esistenza siano decisamente
peggiorate. In Italia, il paese con la più grande riserva di risparmio
privato, forse si è manifestata inizialmente con meno irruenza,
considerato che per alcuni strati della popolazione c’erano dei piccoli
salvadanai cui attingere. Ma poi, mese dopo mese, chiude l’ospedale, la
scuola funziona sempre peggio, il bus che ti portava a lavoro viene
cancellato, le tariffe di acqua luce e gas aumentano… Insomma, i morsi
della crisi si fanno sentire. E non c’è più il welfare state di prima:
la rete statale è stata pian piano smantellata, pur resistendo grazie
alla determinazione di lavoratori e utenti. Avanza il mercato, il
privato prende spazio e guadagna lauti profitti. L’abisso viene
presentato come prospettiva probabile se non si seguono i dettami delle
istituzioni sovra-nazionali e dei governi. La Grecia, il paese messo
peggio in Europa, viene continuamente additato come il nostro futuro se
non si procederà al taglio del debito – che significa taglio di servizi,
salari e pensioni – all’adozione di regole finanziarie rigide, a
privatizzazioni e a un “ammodernamento” del mercato del lavoro e del
mondo dell’istruzione. Per sfuggire al baratro molti accettano, si
fidano. Elettoralmente si tenta la fortuna con le ultime formazioni
partitiche, ma presto o tardi si capisce che non costituiscono parte
della soluzione, bensì del problema. Noi crediamo che anche in Italia
potremmo assistere ad una rottura, ad una “liquefazione delle tolleranze
morali verso i governanti”. Un momento che in altri paesi ha avuto
luogo a partire dalla propria stessa difficoltà; è stato allora che la
gente ha cominciato a preoccuparsi del resto e degli altri. E, in
piccolo, col lavoro mutualistico che portiamo avanti quotidianamente
osserviamo questo fenomeno. La sfida è portarlo ad un livello di massa,
organizzarlo, dargli una direzione e dei metodi di lotta. Non possiamo
prevedere il momento della “rottura” di queste tolleranze, ma possiamo
lavorare per non farci trovare impreparati. In questi sommovimenti
cambia il “senso comune” delle persone. Ciò che prima era considerato
come la normalità non viene più accettato. Ciò che prima nemmeno si
presentava alla mente, diviene realtà. Quelli che sono pilastri delle
vecchie società crollano. La proprietà privata, in quanto prodotto della
storia, a meno di ritenerla un prodotto naturale, non fa eccezione.
Però, ammesso che ci sia una chiave di volta, ancora non l’abbiamo.
Dobbiamo – come diceva Meszaros – cercare pazientemente delle
alternative, costruirle e rinforzarle. Esistono già oggi delle
sperimentazioni, delle direzioni di lavoro. Lo Stato comunale di cui
parla Chàvez è una di queste. Tra attacchi e difficoltà interne in
Venezuela si prosegue nella sua costruzione. Vincerà nel momento in cui
riuscirà a dimostrare che la logica socialista di funzionamento della
società nel suo complesso, una nuova dialettica tra produzione e
consumo, tra pianificazione e spontaneità, è superiore alla logica del
capitale, di per sé distruttiva del genere umano. E sempre al Venezuela
guardiamo – anche se di esempi altri non mancherebbero – per smentire
qualsiasi visione “determinista” della storia e del nostro futuro. A
Caracas la “fine della storia”, proclamata da più parti, ha in realtà
significato l’inizio di un’ondata rivoluzionaria che per fortuna ancora
non si arresta. C’era stata una ribellione popolare schiacciata nel
sangue – “el Caracazo”, un tentativo di colpo di stato sventato,
avanzavano privatizzazioni ed immiserimento. Lo stesso schema di
dominazione e spartizione del potere andava avanti da decenni. Nessuno
pronosticava una “rottura” rivoluzionaria. Come non era in grado di
pronosticarla Lenin a pochi mesi dalla rivoluzione di febbraio e come
nessuno la pronosticherebbe oggi in Italia. Nessun osservatore è stato
infatti in grado di prevedere l’irruzione sulla scena di una logica
diversa, quella promossa dal Comandante Chàvez e portata avanti da masse
di diseredati e “invisibili”, che hanno conquistato un posto da
protagonisti in quella storia da cui erano stati fino ad allora esclusi,
di cui erano stati al massimo oggetto. In che modo quell’esperienza ci
parla di una “rottura”? Crediamo che, così come sostiene anche Alvaro
Garcìa Linera, dobbiamo innanzitutto imparare a pensare alla rivoluzione
come ad un processo e non un atto. Non esiste il giorno della resa dei
conti, ma costruzione di egemonia, che non è solo pratica discorsiva,
come pretenderebbe qualcuno, ma capacità di costruire le proprie forze,
certi che il nemico non starà a guardare e che, a seconda del contesto
in cui si muove, porterà l’attacco, senza farsi scrupoli di alcun tipo,
arrivando letteralmente a bruciare gli avversari politici o a portare
popoli interi alla fame, a minacciare con ogni mezzo e ogni linguaggio. I
momenti dello scontro si susseguono, diventano punti di biforcazione e
l’esito è dovuto anche a quanto si è riusciti a costruire fino a quel
momento. E poi di nuovo a lavorare per costruzione di nuova egemonia. Se
dunque pensiamo alla “rottura” non come a un momento preciso, come a un
atto, ma come al risultato di un processo di transizione, la cui durata
non possiamo predeterminare, riteniamo che la nostra possa dirsi già
oggi “politica della rottura”.
Da citystrike.org
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domenica 7 gennaio 2018
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