contropiano
Ci sono tanti modi per raccontare la contemporaneità, le sue contraddizioni, le sue tensioni, le sue problematiche.
Ci sono tanti modi per raccontare la contemporaneità, le sue contraddizioni, le sue tensioni, le sue problematiche.
Uno
di questi, è farlo attraverso ciò che chiamiamo “arte” o “cultura”.
Pittori e scultori, registi e scenografi, poeti e scrittori, e ancora
fotografi, musicisti e cantanti, sono degli interpreti incredibili su
quanto riguarda ciò che accade nella nostra società.
Ebbene, questa – come tutti sapete – è la settimana del festival di Sanremo. “Imperdibile” kermesse culturale.
A
me sinceramente di Sanremo non è mai fregato assolutamente niente, i
miei gusti musicali mi hanno sempre fortunatamente portato altrove, e
non l’ho mai nemmeno seguito, ma quest’anno – per puro caso – ho beccato
un gruppo che già conoscevo esibirsi mentre facevo zapping alla tivvù. Gli “Stato Sociale”.
Ora, il mio intento non è recensire la canzone degli Stato Sociale “Una vita in vacanza”
che sta concorrendo a Sanremo, né tantomeno entrare nella spirale del
giudizio artistico che si può avere intorno a uno dei più antichi e
prolifici festival culturali mainstream. Si potrebbero scrivere pagine
interminabili di critica dell’industria e dell’establishment culturale e
di come esso cerchi sempre di riprodurre sé stesso, inglobando ogni
volta le mode underground del momento.
No, questo adesso sarebbe molto barboso; quello che mi interessa è sottolineare un altro aspetto.
Gli
Stato Sociale sono uno dei tantissimi gruppi che stanno riuscendo in
qualche modo a far rivivere la musica italiana, anche a livello
underground. Mosse di mercato, ricerca artistica, chi più ne ha più ne
metta: ma il dato è incontrovertibile, la musica (indie) italiana va che è una bellezza!
E ci sono una marea, dico una marea, di giovani che l’ascoltano.
Si
può quindi parlare di un fenomeno culturale concreto, attivo, vivo, che
interpreta il mondo e la fase storica nella quale viviamo.
Sì perché la cosa curiosa che mi ha fatto interessare a questi gruppi musicali è l’esplicita critica sociale che trasmettono.
Anche
la canzone che ho citato prima – e che adesso incredibilmente si
ritrova in gara a Sanremo – ha un testo che ci presenta quella che è la
dimensione sociale dei nostri tempi: una vita passata in vacanza, danzando tra i ruoli più differenti; altrimenti “sei fuori”.
Ecco, ma questo passare da un ruolo all’altro, non vi ricorda qualcos’altro?
E questo essere perennemente in vacanza?
A me fa tanto venire in mente la precarietà
e, nel tentativo degli Stato Sociale, un modo di ironizzare su quanto
penosa sia questa esistenza, costretta a inseguire i più assurdi e
disgraziati mestieri, alla disperata ricerca di un ruolo (sociale) nel
mondo, senza mai realmente apprendere niente di che, cercando allora di
considerarsi perennemente in vacanza, perché poi tanto arriverà la
disoccupazione e allora è meglio pensare di essere in ferie che senza
lavoro.
L’arte d’altronde è fatta così, non si prende mai troppo sul serio quando si tratta di denunciare qualcosa, soprattutto quando questa ha poi radici in mondi underground e provocatori come la musica indie.
Ma,
appurato il fatto che quello di cui parla questa canzone è una
condizione sociale alquanto lugubre, e assodato che questo genere di
gruppi musicali hanno tutti più o meno lo stesso stile di denuncia
(anche lo stesso nome della band ci dice qualcosa, “Lo Stato Sociale”), e
certi del fatto che – per avere così tanto successo da arrivare perfino
a Sanremo – schiere di giovani ascoltino le parole di queste canzoni, a
me viene una inevitabile voglia di pormi altre domande.
Sì,
perché magari io sarò cresciuto su altri pezzi, in altri anni,
ascoltando pallottole di vecchio punk rock sparate a manetta nelle
cuffie del mio lettore cd, ma il ricordo più vivo che ho dell’epoca e
dell’ascolto di quella musica di denuncia, era un’incredibile rabbia che
mi veniva fuori: una vera e propria voglia di riscatto, una ricerca
continua al fine di trovare, a tutti i costi, un posto nel mondo.
Mi
ricordo che all’epoca era anche una cosa condivisa da tanti altri miei
coetanei. C’era stato il G8 di Genova, la morte di Carlo Giuliani, la
destra al governo, la guerra in Afghanistan e in Iraq, insomma anni
turbolenti.
Ma non sono anche questi anni un po’ così, turbolenti?
C’è
la guerra in Siria, quella in Afghanistan mai terminata; c’è il dramma
dei migranti che affogano nel mediterraneo; c’è una crisi economica che
va avanti da 10 anni senza mai fermarsi; c’è un’alternanza di governi
alla guida di questo paese da far accapponare la pelle; c’è un nazista
che va in giro a sparare a 6 persone solo perché hanno un colore della
pelle diverso dal suo. Insomma, non si può dire che siano anni in cui manchino le motivazioni per cui incazzarsi.
Ma
quello che mi chiedo allora è perché, ragazzi miei, non vi incazzate
più, non ci incazziamo più. Sì, perché chi scrive non è che sia tanto
più grande; di anni in fondo ne ho solo 30, ma mi sembra che sia passato
un secolo da quel lontano 2001.
Cos’è che manca per far scattare la scintilla?
Dopo
anni passati a scervellarmi sulla questione, credo la risposta stia
semplicemente nel fatto che i giovani non vengono più interpellati. Non
gli si chiede più insomma cosa ne pensino. Dentro e fuori la nostra
società. Dentro è fuori la scuola e l’università. Dentro e fuori la
politica. Dentro e fuori i partiti “di governo”. Dentro e fuori il
“movimento” (non quello 5 stelle). E allo stesso tempo non c’è niente
che si fa per loro o insieme a loro. Ci si deve arrangiare, punto e
basta. Abbandonarsi
completamente all’apatia, ad altre narrazioni (dominanti) e far finta
di niente. Ironizzare, tramite qualche “canzonetta”, sulla propria
misera condizione lavorativa di precario, che si traduce nell’escludere
ogni possibilità di certezza dalla propria vita, compresi anche gli
affetti.
Colpa nostra? Colpa loro? Io non lo so, non mi interessa.
Ma
credo che, se dei contenuti così tanto densi arrivino nel testo di una
canzone di un festival mainstream come Sanremo, magari dovremmo
sfruttare un po’ meglio l’occasione.
Marx parlerebbe di passaggio dalla classe in sé, alla classe per sé.
Troppo
ambizioso, al momento, dico io. Sicuramente corretto, perché
corrisponde alla realtà del mondo in cui viviamo. Ma forse è anche un
po’ noioso.
Però almeno guardiamoci in faccia e facciamo qualcosa. Parliamo. Interagiamo.
Che
poi i soldi di mamma, babbo o nonno finiscono, e lì non c’è più nulla
da fare, le bollette non le paghi e la luce te la staccano. E poi allora
il festival di Sanremo non lo vede più nessuno.
Ecco, allora facciamo davvero qualcosa.
Le opportunità ci sono.
Ho
sentito parlare ad esempio di una nuova forza politica che è fatta di
gente come noi ed ha fatto qualcosa come 150 assemblee sui territori di
tutto il paese prima di decidere come procedere e che strada prendere.
Non so, potrebbe essere un’occasione, magari anche no, sarà solo altra fuffa.
Però
nel dubbio, potrebbe valer la pena tentare…e magari – al prossimo
festival di Sanremo – sentire dei gruppi più ganzi. E tornare a vedere
una vecchia che balla.
* Inviato a Senza Soste da Simon Ilic, 8 febbraio 2018
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