Tutti vogliono la meritocrazia, ma siete sicuri di saperla riconoscere?
Meritocrazia è un termine inventato con intento satirico dallo scrittore e sociologo inglese Michael Young, nel libro L’Avvento della Meritocrazia.
Andrea Bellelli Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza
Contrariamente alle sue intenzioni, Young è stato talvolta preso sul
serio e in Italia al momento la meritocrazia (o l’assenza di
meritocrazia) è vissuta da molti come un problema gravissimo.
Ovviamente la richiesta di meritocrazia da parte della società
ripercorre i paradossi che Young mette in luce nel suo libro. Voglio
considerarne in questo post soltanto due: se sia facile (o addirittura
possibile) effettuare reali valutazioni del merito delle persone, e se, facendolo, le persone sarebbero soddisfatte.
Il problema della valutazione delle persone, in genere nell’ambiente lavorativo, in occasione di assunzioni o promozioni è multidimensionale e pertanto complesso:
competenza professionale, esperienza, innovatività, rigore,
preparazione sono tutti parametri importanti e diversi tra loro e
ciascun candidato di qualunque concorso li possiede tutti ma in diversa misura.
E’ preferibile il candidato che ha il massimo punteggio medio sulle
scale valutative (arbitrarie) di ciascuna dimensione? O una dimensione
conta più dell’altra e la media va pesata? Se sì, come?
Scegliere un dirigente, un medico, un docente per una posizione
pubblica non è la stessa cosa che proclamare il vincitore di una gara
sportiva, perché la gara è monodimensionale: vince il concorrente più
veloce, o quello che salta più in alto e il problema finisce lì. Nei
paesi anglosassoni, per lunga tradizione, il concorso pubblico è
sostanzialmente la scelta insindacabile di qualcuno: i
valutatori fanno un colloquio con ciascun candidato e scelgono quello
che li convince di più; non sarà forse oggettivamente il migliore, ma
sarà quello che è stato ritenuto più adatto.
Le ovvie difficoltà nello stilare una classifica monodimensionale che tenga conto di una valutazione multiparametrica, sono amplificate nella percezione soggettiva di ciascun candidato: ovvero nessun candidato,
tranne quelli che vincono il concorso, sarà mai soddisfatto della
classificazione stilata dalla commissione. Il problema, ampiamente
studiato nella psicologia sociale, ha un nome: si chiama illusory superiority. L’illusory superiority è quel fenomeno per il quale il 40% dei membri del gruppo è convinto di costituire il miglior 5% dello stesso gruppo.
Immaginiamo un concorso per selezionare 5 capi ufficio tra 100
impiegati di una ditta: 40 di loro sono convinti di essere tra i
migliori 5. Ancora ammesso che l’ufficio personale della ditta sia in
grado di applicare un metodo di selezione meritocratico perfetto, ci
saranno 5 capi ufficio soddisfatti e almeno 35 impiegati convinti di
essere stati privati di un loro diritto a favore di colleghi meno
meritevoli. In nessun sondaggio l’opinione “il metodo di selezione era effettivamente meritocratico”
può prevalere sulla sua opposta “il concorso era una porcheria, hanno
vinto i soliti raccomandati”. D’altra parte “crazia” significa governo e
meritocrazia non può coesistere con democrazia: o si
governa in un modo o nell’altro, non in entrambi. Se il livello di
corruzione del paese è misurato sulla percezione dei cittadini è molto
probabile che risulti sovrastimato. Quanto sopra,
ovviamente, a prescindere dalle considerazioni oggettive sull’effettivo
livello di corruzione misurato sulla base delle sentenze della
magistratura.
I politici (tutti) queste considerazioni le conoscono benissimo e
sanno che promettere meritocrazia a piene mani porta voti, purché si
abbia un partito nuovo. Infatti la illusory superiority
ci dice che la maggioranza degli elettori brama meritocrazia perché
ritiene che gli convenga, si sente insoddisfatta della sua carriera e
poi sarà comunque insoddisfatta della meritocrazia realizzata governo
che ha eletto, a meno che questo non sia in grado di moltiplicare i
posti attribuibili per concorso.
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