martedì 24 aprile 2018

Ammazziamo i professori.

Non si contano più ormai, le reazioni violente, le vendette, financo i pestaggi di cui, sempre più spesso, sono vittime i docenti in molte scuole d’Italia. Non solo un’emergenza educativa, ma una vera e propria emergenza antropologica, alimentata dalla certosina opera di smantellamento culturale, sociale, politico della scuola statale italiana e dal degrado culturale del ventennio alle nostre spalle.




micromega  Anna Angelucci
La notizia è sui quotidiani di oggi: in un istituto tecnico di Velletri uno studente di 16 anni aggredisce verbalmente la professoressa che lo aveva rimproverato, minacciando di ucciderla e di scioglierla nell’acido. Il giovane bullo è in buona compagnia: non si contano più ormai, le reazioni violente, le vendette, financo i pestaggi di cui, sempre più spesso, sono vittime i docenti in molte scuole d’Italia.

La vogliamo derubricare a ‘emergenza educativa’, come sembrano proporre gli esperti, i giornalisti, gli opinionisti, così come molti genitori e addetti ai lavori? Vogliamo continuare a limitarci a formulare preoccupazioni, ammonimenti e blandi percorsi di riabilitazione formativa per i malcapitati colpevoli mentre i video in cui gli studenti bestemmiano, imprecano, umiliano o addirittura picchiano gli insegnanti (e i loro compagni ridono a crepapelle) impazzano sui social?

Credo sia davvero arrivato il momento di fare una riflessione seria e molto articolata su quella che, a mio avviso, è una vera e propria emergenza antropologica e non solo, dunque, educativa. Sulle sue ragioni e sulle responsabilità diffuse. Cominciamo dalla scuola e da chi la governa: sono almeno vent’anni, da Luigi Berlinguer in poi, che noi docenti abbiamo nelle orecchie il mantra, reiterato a ogni piè sospinto da ministri, ispettori e dirigenti scolastici, che dobbiamo garantire il “successo formativo”, quasi fossimo a X Factor o a Master Chef.

“Abbassare l’asticella” delle richieste, essere “accattivanti” e possibilmente “divertenti” nello svolgimento delle nostre quotidiane attività didattiche. L’attacco alla ‘lezione frontale’ (disonestamente rappresentata come una pletorica colata lavica di parole che pietrifica studenti inebetiti) su cui i pedagogisti hanno costruito le loro più recenti proposte teoriche per la scuola, è solo la punta dell’iceberg di uno stillicidio didattico che sarebbe culturalmente demenziale se non fosse drammatico negli effetti sociali che produce. Uno stillicidio fatto di flipped classroom in cui gli studenti insegnano e i docenti ‘mediano’ e di DADA (Didattica per Ambienti di Apprendimento), in cui i docenti non si muovono dalla classe e gli studenti li raggiungono, così intanto si sgranchiscono le gambe e si ossigenano le sinapsi; fatto di futuristiche abolizioni dei libri di testo sostituibili con il copia-e-incolla da Internet, o di compiti “autentici” (sic) come se quelle svolti fino ad ora fossero fasulli. Fatto di recuperi miracolosi di insanabili “debiti formativi” imposti a fine anno dai dirigenti scolastici, accompagnati dal fiorire di certificazioni di diagnosi di disturbi dell’apprendimento di ogni sorta, che facilitano i percorsi scolastici fino alla garanzia di una promozione a prescindere.

La ‘buona scuola’ di Renzi, da questo punto di vista, ha raggiunto vertici di inarrivabile follia: migliaia di docenti di materie che, dopo Attila-Gelmini, non si insegnano più nelle scuole, sono stati assunti e riversati sui banchi di tutta Italia, a costituire un contingente organico di riserva a disposizione per fare “la qualunque”, mentre l’algoritmo sbagliato preposto dal MIUR per l’assegnazione delle cattedre mandava al Nord chi abitava al Sud e viceversa, contribuendo a destabilizzare il già precario equilibrio delle istituzioni scolastiche. Nei licei scientifici che avevano bisogno di docenti di matematica e fisica sono arrivati docenti di diritto o di ginnastica; nei licei classici, docenti di arti applicate. Tanto per dire.

È notizia recentissima che sono in atto, in tutte le regioni d’Italia, trasferimenti coatti dalle scuole superiori alle scuole dell’infanzia, che hanno organici sottodimensionati. Così, insegnanti che il Ministero ha voluto laureati, abilitati e immessi in ruolo in base a discipline e classi di concorso, si troveranno demansionati in scuole per le quali non hanno nessuna specifica preparazione culturale, didattica e professionale. Nessuna formazione psicopedagogica per insegnare a bambini dai 3 ai 6 anni. Dove sono i pedagogisti che, nelle loro torrette d’avorio universitarie, in questi anni non hanno fatto altro che attaccare scuola e docenti in nome di teorie e pratiche ‘innovative’ quel tanto che bastava per costruirci sopra le loro belle carriere? Che hanno alimentato, con i loro interventi o con i loro colpevoli silenzi, l’opera certosina di smantellamento culturale, sociale, politico della scuola statale italiana?

“Ti ammazzo e ti sciolgo nell’acido”: un sedicenne può dire queste parole impunemente (secondo i giornali, la scuola non ha né sospeso, né denunciato lo studente) solo perché l’operazione di smantellamento del valore e della funzione dell’istruzione pubblica è riuscita appieno. L’idea berlingueriana, mai smentita, che l’educazione scolastica sia sullo stesso piano di quella, ‘informale’ e ‘non formale’, fornita dalle cosiddette ‘agenzie educative’ quali, ad esempio, la televisione (sic) o, potremmo dire, la parrocchia, la palestra o la strada, fino addirittura al sindacato nell’edificante esperienza formativa della nostra ultima ministra dell’istruzione, implica la totale svalutazione dell’atto educativo e formativo compiuto a scuola. Oggi, qualunque genitore, anche analfabeta, può contestare l’operato e il giudizio di un insegnante, specie se spalleggiato da un bel gruppo classe su whatsapp, che certo, col metro del valore di scambio e dell’utilità economica con cui ormai si misura tutto, conta più del pensiero di qualsivoglia premio Nobel.

Nel generale degrado culturale, prima ancora che politico, di cui il ventennio alle nostre spalle è drammaticamente responsabile, si è teorizzato e realizzato l’abbattimento di ogni autorevolezza, ultima garanzia di protezione dei rapporti familiari e sociali e di trasmissione di principi e valori tra le generazioni, dopo il crollo postsessantottino del principio d’autorità. Nell’ultimo rigurgito di relazioni in carne ed ossa, (a breve sostituite del tutto dal controllo a distanza, come previsto dalla legge sulla “dematerializzazione dei rapporti scuola-famiglia” che ha istituito il registro elettronico) al colloquio con gli insegnanti, nelle scuole di periferia, arrivano cinquantenni tatuati; supponenti radical chic nelle scuole del centro, dove fanno breccia anche ignominiosi pronunciamenti razzisti, a leggere certi rapporti di autovalutazione che ammiccano con successo al genitore 2.0. Tutti avvocati difensori di figli a dir poco svogliati, ai quali fin da bambini hanno comprato in abbondanza smartphone, Nintendo, Playstation, pc e iPad. Con i quali condividono profili Facebook e Twitter ma certo non un libro. Ricordo le parole della giornalista radiofonica che descriveva la stanza di Ciro, l’adolescente napoletano colpevole dell’omicidio di una guardia giurata: linda e pinta, senza un filo di polvere, nuda, con un grande schermo piatto al plasma alla parete, due cellulari rotti in un angolo. Sul comodino, sulla scrivania neanche un libro, un fumetto, un quaderno. Del resto, la ‘Buona scuola’ prevede che gli insegnanti più bravi si trasformino in “animatori digitali” (chissà se questo stilema lo ha coniato il maitre à penser Baricco… ). Ma di che parliamo?

Bene. Abbiamo dato retta agli psicologi che ci dicevano che, nel tempo che passiamo con i bambini e gli adolescenti, “la qualità conta più della quantità”. Abbiamo dato retta ai pedagogisti e agli opinionisti che ci dicevano di non demonizzare Internet perché “l’importante è educarli all’uso consapevole dei nuovi media”, intimandoci di lasciarli comunque divertire. Abbiamo dato retta a ministri, ispettori e dirigenti scolastici che ci hanno martellato con le magnifiche sorti e progressive dei nuovi strumenti tecnologici e della didattica per competenze, dichiarando la loro noia conclamata solo al sentir evocare le parole ‘lezione’, ‘cultura’, ‘impegno’, ‘politica’, fino ad accettare supinamente l’ultima trovata geniale del MIUR che ci chiede di certificare, al termine della scuola elementare e media, le competenze imprenditoriali dei nostri alunni (sic). Abbiamo dato retta agli innovatori che ci sbeffeggiavano se, invece di un tablet, giravamo per le scuole con in mano libri e giornali e così, anche a scuola, abbiamo consegnato bambini e adolescenti nelle maglie mortifere della Rete dove tutti, indistintamente, danno e condividono il peggio di sé. Abbiamo dato retta a Confindustria, che ci ha fatto credere che, siccome “il lavoro rende liberi”, tanto vale alternarlo alla scuola fin da piccoli.

Oggi, protagonisti di questo dilagante analfabetismo di andata e ritorno, frutto di esecrabili politiche educative e scolastiche (ma attenzione, al MIUR ci sono fior di commissioni che preparano le loro brave linee guida per l’uso in classe dei cellulari) i ragazzi deridono, sbeffeggiano, ridicolizzano, minacciano i loro insegnanti, e non solo quelli più fragili (avendo pienamente introiettato il delirio narcisistico – ormai psicopatologico – dell’individualismo, della competitività, dell’opportunismo, della libera espressione di sé sfrenata e efferata conculcati attraverso le pratiche scolastiche e sociali dominanti). Perché tanta meraviglia? Sulla scuola in Italia ormai si fanno solo tagli, mentre si demonizzano gli insegnanti seri che vorrebbero vedere i loro alunni culturalmente attrezzati e, contemporaneamente, si scimmiottano didattiche e strumenti di valutazione che all’estero vengono ormai da anni considerati inefficaci.

La scuola è diventata un grande e orribile parcheggio, da cui tutti – bambini, adolescenti, docenti – vorrebbero solo scappare.

Chissà? Forse ammazzare tutti i professori, senza lasciare sopravvissuti come nell’omonimo, splendido romanzo di Antonio Scurati, e scioglierli nell’acido, come propone lo studente di Velletri, potrebbe essere una buona, anzi un’ottima idea.
    
(20 aprile 2018)

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