domenica 22 aprile 2018

Di solidarietà e collettività: vent’anni fa si scioglieva la RAF.

Trovare un nuovo Fuori.


»Sapevamo che questo sistema a livello mondiale avrebbe lasciato a sempre meno persone la possibilità di una vita dignitosa. E sapevamo che questo sistema vuole una presa totale sulle persone perché si sottomettano da sé ai valori di questo sistema e li facciano propri. Da questo presentimento veniva la nostra radicalità. Noi non avevamo niente a che fare con questo sistema.«
»Ciononostante l’agitazione sulla nostra violenza ha anche tratti irrazionali. Perché il vero terrore sta nella condizione normale del sistema economico.«
(dalla dichiarazione di scioglimento della RAF, scritta a marzo, pubblicata nell’aprile 1998)

20 anni fa la Rote Armee Fraktion, in una dichiarazione di diverse pagine, dichiarò il suo scioglimento. Solo poche compagne e compagni erano ancora in clandestinità, tre di loro ancora oggi sono latitanti, e, lo premetto, si spera sostenuti da strutture solidali e mai arrestati. Perché non potrebbero aspettarsi altro che bassezza tedesca nei confronti di rivoluzionari e rivoltosi; l’alternativa sarebbe tradire tutto o passare il resto della loro vita in carcere.
Nel 1970 si era costituita la RAF, all’epoca la dichiarazione era collegata a un’azione, la liberazione di Andreas Baader dal carcere. La dichiarazione finale ha rinunciato a presentarsi in forma di un’azione. Nel frattempo erano passati 28 anni, l’ultima azione della RAF, far saltare il carcere di Weiterstadt appena costruito, era avvenuta esattamente cinque anni prima. Quasi cinque anni erano passati dallo scontro con il GSG 9** a Bad Kleinen, nel quale si era arrivati all’”esecuzione stragiudiziale” del componente della RAF Wolfgang Grams, che prima nello scontro a fuoco aveva ucciso il membro del GSG-9 Michael Newrzella.
Nessun ritorno

Politicamente l’auto-scioglimento della RAF sarebbe potuto arrivare anche prima, ma nessuno della RAF ne era in grado. La rottura con la società del capitale era troppo profonda, la separazione troppo definitiva per poter essere semplicemente revocata. Un ritorno per noi non era mai stato pianificato. Con il sistema dominante non c’entravamo niente. La decisione di sciogliere il rapporto intransigente nella pratica, veniva dal riconoscere di non poter aprire uno spazio rivoluzionario. Un’azione che non è pensabile senza amarezza.
Chi ha toccato una volta l’esperienza della liberazione, non ne viene più abbandonato. Pier Paolo Pasolini ha registrato questo dato di fatto cinematograficamente a partire da un tetro presentimento. Il suo film »Teorema« del 1967, già trattava delle conseguenze di una liberazione realmente vissuta e poi sparita. L’ignoto e innominato in questo film, che appare come una divinità nel ceto borghese e rende tutti felici, con la sua altrettanto immotivata sparizione lascia il dramma e la ferita di una liberazione interrotta.
Possibilità reale
Cito questo film perché a mio avviso può essere considerato un’allegoria del movimento del ‘68, dove il »68« figura solo come cifra per la svolta di una gioventù prevalentemente sociale a partire dalla metà degli anni sessanta nel mondo. Allora all’orizzonte c’era l’idea della vita che non viene più percepita attraverso sfruttamento e repressione, dominio e servitù, guerra e autorità, come spezzata e distruttiva. La liberazione da tutto questo divenne una possibilità reale. A partire da questa percezione della realtà, la solidarietà e la collettività erano semplici. Oggi, nella condizione della distruzione globalizzata, dove ogni via d’uscita da un presente dispotico sembra essere chiusa, il pensiero della liberazione complessiva sembra tutt’al più astratto e nella quotidianità sostituito dal reazionario »si salvi chi può«.
Solidarietà e collettività non sono più veicolate a partire dall’esperienza comune di un futuro di sinistra. All’epoca qualcuno doveva trasformare in azione questa speranza di rivoluzione occupata in modo quasi libidinoso, e osare questo passaggio all’attacco armato. La RAF, le Brigate Rosse e molti altri gruppi armati di una sinistra fondamentalmente militante, non voleva sottomettersi alle conseguenze di una liberazione interrotta e tenerne aperte le possibilità storiche.
Della RAF si possono dire anche molte cose negative. Come potrebbe essere altrimenti? Uno scontro armato non va liscio per nessuno. Questo del resto da decenni avviene continuamente nello spazio mediale del sistema e spesso si spertica in stupida perfidia e nella ricerca dell’interpretazione più infame contro i suoi vecchi attori, ma ironicamente oggi si trova in contraddizione con esternazioni in colloqui privati e semipubblici con cittadini in parte assai piccolo borghesi, quando di buon grado fanno sapere che secondo loro la RAF »oggi ci starebbe« e sarebbe da loro sostenuta.
Il contropotere
Rispetto alla RAF e a tutti questi gruppi armati si può però anche pensarla diversamente: la RAF è stata il tentativo di rafforzare l’idea nutrita dall’esperienza di una vita fuori dal capitalismo nell’attacco contro il tutto. Con questo nella società e nei confronti dello Stato ha posto la questione del potere che ogni vera lotta di classe e ogni opposizione fondamentale deve porre, se non vuole essere stroncata in modo riformista. Intendeva se stessa come contropotere e come tale è stata anche combattuta. Questo dato di fatto da parte dello Stato è anche lo scenario per quel rapporto vittoria-o-morte che Helmut Schmidt ha innalzato come ragion di stato per Hans-Martin Schleyer e i passeggeri sequestrati di un aereo Lufthansa, così come l’istituzione del rapporto-amico-nemico, documentata nel modo più immediato da una persecuzione senza limiti dei simpatizzanti, dove già la mancata professione in favore dello Stato veniva dichiarata atto ostile.
Il movimento del 68 ha posto in modo teorico la questione del potere rispetto all’ordine sociale redatto secondo il capitalismo, ma l’ha lasciata cadere dopo alcune scaramucce nelle strade. La paura dello squartamento era troppo grande. Nella RFT la RAF ha accettato questa questione vacante nella pratica, cercando di darle una risposta.
Oggi questo Fuori a livello concreto sembra inimmaginabile e perduto. Anche se il sistema del capitalismo resta criminale come mai prima, si è sedimentato nelle persone come privo di alternative. Guerre diventano endemiche, lo sfruttamento totale di uomo e natura è diventato quotidianità. La sua riduzione a oggetto e addestramento, il suo controllo e condizionamento a cittadino adattato e funzionale idiota del consumo, sempre pronto per qualunque assurdità di un mondo delle merci spesso umiliante, sono organizzati in modo più totale che mai, l’apparato di repressione e controllo più gigantesco di quello nel vecchio fascismo. Invece di aprire alla persona un orizzonte sociale, il suo sguardo viene schiacciato verso il pavimento e l’esistenza sbagliata dichiarata »priva di alternative«. Tutti i valori sono ridefiniti nell’unico vero ordine della vendita di se stessi e del consumo. Questo si è instaurato come cornice di tutta vita, sia dal punto di vista temporale che geografico. Il sistema con la sua strategia di integrazione corrotta e di annientamento ha vinto e vince quotidianamente nell’allargamento dello sradicamento e della riduzione all’impotenza della persona.
Lo scioglimento della RAF è seguito al riconoscere che una minoranza, per quanto si possa sforzare, da sola non può produrre un Fuori. Ma ne avremo bisogno se non vogliamo soccombere. Il capitalismo è la più grande minaccia per l’umanità. Usciremo dal suo pericolo solo se troviamo un nuovo Fuori e ritorniamo alla questione del sistema.
Da junge Welt: Edizione del 20.4.2018
Traduzione a cura di Sveva Haertter
*Karl-Heinz Dellwo era e è: autore, editore, documentarista. Componente della RAF. In tutto 21 anni di carcere, di cui molti in isolamento singolo o in piccoli gruppi.
** squadra di teste di cuoio della Germania, “utilizzato per operazioni anti-terrorismo nazionale e internazionale, operazioni speciali di ordine pubblico, liberazione ostaggi, scorta di capi di stato e incursioni terrestri e marittime”

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