Legge ma non Giustizia. Torino, Tribunale del lavoro respinge ricorso dei rider Foodora “licenziati dopo proteste”: “Non era subordinazione”.
I legali dei fattorini
hanno annunciato ricorso in appello contro la sentenza che, di fatto,
accoglie la tesi di non subordinazione proposta dagli avvocati del
marchio tedesco.
Il Tribunale del lavoro Torino ha respinto il ricorso, primo del genere in Italia, dei sei rider di Foodora che avevano intentato una causa civile contro la società tedesca di food delivery, contestando l’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro dopo le mobilitazioni del 2016
per ottenere un giusto trattamento economico e normativo. “Se questo
sistema di lavoro è stato ritenuto legittimo, si espanderà”, commentano i
legali dei rider, Giulia Druetta e Sergio Bonetto, annunciando l’intenzione di appellarsi alla sentenza.
Accolta la tesi dell’azienda, i cui legali hanno sostenuto l’assenza
del vincolo di subordinazione, fondamentale per dichiarare illegittima
l’interruzione del rapporto di lavoro.
“Da un lato manca l’obbligo di
lavorare – ha sostenuto l’avvocato Ornella Girgenti,
che con i colleghi Paolo Tosi e Giovanni Realmonte difendeva Foodora – e
dall’altro l’obbligo di far lavorare. Erano i rider a decidere quanto e
quando dare disponibilità e l’azienda non si è mai vincolata a far
lavorare. Non c’è scritto da nessuna parte che il rider deve offrire una
disponibilità minima”, ha continuato Girgenti. “Molti fattorini,
all’ultimo, soprattutto nei giorni di pioggia in cui le richieste di
consegne sono tantissime, rinunciavano ai turni, senza preoccuparsi di
cercare un sostituto, senza scusarsi”. In merito alle chat, per
l’avvocato “si trattava solo di esortazioni, molte volte fatte in modo
scherzoso e con qualche faccina. Chi è stato sospeso dalla chat, e a noi
risultano tre casi, ha utilizzato parolacce”.
Al contrario, hanno sostenuto Druetta e Bonetto, “i
rider di Foodora erano sfruttati, monitorati dall’azienda in ogni loro
mossa. E chi si è lamentato è stato espulso”. “Una discriminazione
evidente”, ha sostenuto il legale. “Il rapporto che legava i rider
all’azienda aveva le caratteristiche del lavoro subordinato, anche se
loro erano inquadrati come collaboratori autonomi. I ragazzi dovevano
essere reperibili in maniera costante e continuativa e, tramite
un’applicazione, erano monitorati, tracciati e valutati in ogni loro
mossa. L’app era una sorta di braccialetto elettronico con cui prendere
punti per riuscire a mantenere il proprio posto in azienda”.
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