domenica 29 ottobre 2017

Canapa. Non c’è la legge, ma tutti la vogliono. Ecco cosa succede al mercato italiano della canapa.

Dai pionieri di AssoCanapa alla “marijuana legale” di EasyJoint, semi e infiorescenze sono sempre più richiesti.
 
Lastampa.it
Poca pioggia, troppo caldo. Non è stata una grande annata per le coltivazioni. Felice Giraudo, 83 anni compiuti da poco, scarponi impolverati e camicia a scacchi, vive e lavora da sempre a Carmagnola, paese a poco meno di trenta chilometri da Torino conosciuto in tutto il mondo per due prodotti tipici: il peperone e la canapa. Lui scelse la seconda vent’anni fa esatti, combattendo sia con i borbottii dei compaesani che con misteriosi attentanti incendiari che mandarono in fumo tonnellate di raccolto coltivato con i primi finanziamenti dell’Unione europea. Al suo fianco nella battaglia per riportare in paese quel che c’era sempre stato, Margherita Baravalle, 72 anni che paiono venti di meno. Negli uffici di AssoCanapa tra sementi e piantine, corde e pacchi di pasta, il telefono non smette mai di squillare: chi vuole comperare i semi, chi ha bisogno di un consiglio per iniziare una nuova coltivazione. Se Felice all’ennesima richiesta scuote la testa e torna ai suoi campi, Margherita non smette di spiegare e rispiegare che cosa è legale e cosa no. Coltivare la canapa è un affare, ma complicato: anche nella nuova legge manca un quadro normativo per poter vendere le infiorescenze, sempre più richieste per le loro preziose proprietà nutritive.

Non esiste un’associazione di categoria che rappresenta le aziende italiane produttrici di canapa, così ci si deve che affidare a una stima che sta tra i 300 e i 500 soggetti, molti dei quali nati negli ultimi tre anni. Stesso discorso per gli ettari coltivati: quelli per cui sono stati richiesti i contributi europei per le coltivazioni sarebbero circa 1300, di cui poco più di 200 in Piemonte. A seguire Toscana, Emilia, Lombardia, Veneto e Calabria. Un poco più chiara è la situazione in Europa. Secondo gli ultimi dati raccolti dalla Eiha, la European Industrial Hemp Association, sono coltivati oltre 25mila ettari di terreno. Mentre i campi per la produzione di fibre tessili e materiale per l’edilizia non hanno registrato nessun incremento rilevante, la Eiha tra il 2010 e il 2013 segna un più 90 per cento nella produzione dei semi - da 7 tonnellate e mezza a 240 - e del 3000 per cento per le infiorescenze, dalle 6 alle 11mila.
Per capire meglio quanto può costare lasciare un mercato che nasce a se stesso, c’è il caso della bolognese EasyJoint, azienda che si dedica alla commercializzazione delle infiorescenze creata lo scorso maggio dall’imprenditore e attivista Luca Merola. A pochi giorni dal debutto dei vasetti di fiori, ribattezzati con la poco precisa ma efficace definizione di «marijuana legale», le richieste sono state così numerose da far crollare il portale di pagamenti online PayPal. I prodotti di Marola ora arrivano in 200 negozi, con 56 aziende produttrici e oltre 290 richieste per entrare nella filiera. «Seguendo l’iter della legge sulla canapa industriale, abbiamo assistito alla sua amputazione– spiega Marola -. I limiti per i prodotti alimentari sono folli: 5 parti per milione di Thc, cioè la lieve sporcatura della buccia di qualche seme. Ma non c’è nemmeno una legge che lo vieta espressamente». La partita si gioca sull’etichetta, che non può avere la destinazione d’uso. «Pur vendendo infiorescenze legali, non possiamo indicare se devono essere usata per tisane, decotti, impasti. Aspettiamo le multe amministrative, ma abbiamo una squadra di avvocati che non vede l’ora di divertirsi con questo assurdo rompicapo». Dove pare non arrivare lo Stato, arriva lo spirito d’iniziativa dei privati. «Con un quadro legislativo le attività commerciali di cannabis light in Italia potrebbero generare un fatturato annuo minimo di circa 44 milioni – scrive Davide Fortin, ricercatore italiano della Sorbona che si occupa di cannabis a cui Marola ha chiesto una proiezione basata sui dati dei primi mesi di attività della EasyJoint -. Le previsioni SULle oltre 20 tonnellate acquistate porterebbero a una tassazione sui 6 milioni di euro e ricavi di 50mila euro per ettaro».

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