mercoledì 25 ottobre 2017

Europa. Non basta la retorica del "più Europa" per contrastare l'offensiva tedesca sul debito.

Sono giornate di conflitti politici e istituzionali pesanti: dall'ennesima ferita alla democrazia costituzionale, inferta con i voti di fiducia sulla legge elettorale dalla maggioranza Pd-FI-Lega-Ap, allo strumentale uso elettorale della nomina del Governatore di Bankitalia. Problemi veri. 
 
Altri problemi veri, ancora più veri, vengono però, ignorati. Li ha ricordati, nei giorni scorsi, Lucrezia Reichlin, sul Corriere della Sera. In tre puntate, ha lucidamente proposto una riflessione di grande e immediato interesse politico, non accademico, sui temi al centro del confronto tra Germania e Francia per il futuro dell'Unione europea e nell'euro-zona: da un lato, il progetto tedesco per introdurre nell'ordine giuridico dell'Eurozona la ristrutturazione dei debiti sovrani (indicato nel "non-paper" presentato da Wolfgang Schauble all'ultimo Euro-gruppo), per trasformare il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) in Fondo Monetario Europeo con maggiori risorse finanziarie e poteri d'intervento sulle politiche di ciascun paese, per riconoscere nella valutazione degli asset delle banche i diversi livelli di rischio dei titoli di debito degli Stati; dall'altro, sempre più virtuali e scolorite, le proposte del Presidente Macron per maggiore flessibilità attraverso un bilancio dell'Eurozona e relativo ministro del Tesoro, in una qualche relazione con il segmento "euro" del Parlamento di Strasburgo. Sono problemi decisivi per le prospettive del nostro paese e, in particolare, per gli interessi del lavoro e delle micro e piccole imprese, il popolo della "domanda interna", composito e sofferente, che la sinistra dovrebbe tornare a rappresentare. Sono problemi completamente fuori dalla nostra discussione politica, anche dal confronto dei loquaci leader impegnati in una disputa astratta e incomprensibile, priva di contenuti adeguati, sulla ricostruzione della sinistra o del centro-sinistra o di una qualche new release dell'Ulivo. Di fronte all'offensiva della Germania che ribadisce in modo ancora più autoreferenziale il proprio interesse nazionale, non solo non sappiamo cosa contrapporre, ma non vediamo neanche il problema. Affidiamo il nostro interesse nazionale alla retorica autolesionistica del "più Europa", come ribadito dal Presidente Gentiloni in Parlamento settimana scorsa alla vigilia del Consiglio europeo.

Il trittico della Reichlin si misura con lo scenario alle porte nel quale la fine del Quantitative Easing (Qe) porrà all'ordine del giorno il nodo dei debiti sovrani insostenibili e del connesso circuito bancario. Nel quadro dei rapporti di forza storici, ancor più "introversi" dopo le ultime tornate elettorali (inquietante l'immagine dei funzionari del Ministero delle Finanze di Berlino che, per omaggiare il passaggio di Schauble alla presidenza del Bundestag, si dispongono nel cortile del dicastero a formare lo "Schwarze Null", lo zero nero del pareggio del bilancio federale, scritto in Costituzione e stabilmente raggiunto), l'unica linea possibile viene considerata la linea "di mercato" tedesca, ammorbidita nei suoi effetti di distruzione di capitale finanziario, economico e sociale dal potenziamento del Mes e dall'assicurazione europea per i depositi bancari.
Per una valutazione compiuta di tale realistico quadro, rimangono indefiniti "dettagli" fondamentali: 1. La sostenibilità del debito pubblico dipende, in primis, dalla banca centrale di riferimento. Nel contesto della moneta unica, senza acquisti post "whatever it takes" e senza Qe il debito pubblico italiano sarebbe naufragato. Come si comporterebbe la Bce nello scenario "di mercato"? Quali conditionality imporrebbero la Bce o il Mes per soccorrere le istituzioni finanziarie? 2. La sostenibilità del debito pubblico dipende anche dalla dinamica dell'economia reale. La Germania continuerebbe con il suo mercantilismo estremo, epidemica svalutazione del lavoro e avanzi di bilancia commerciale insostenibili?
Nell'ipotesi, purtroppo probabile, di risposte rigidamente ordoliberiste a tali domande, quali sarebbero le conseguenze per l'Italia e per i diversi interessi economici, sociali e territoriali al suo interno? In una ristrutturazione consensuale, pagherebbero, come avvenuto in Grecia, in modo esiziale il welfare e le imprese legate alla domanda interna, mentre, come al solito, grazie anche agli interventi del Mes, si salverebbero i capitali finanziari e le imprese export-oriented. Finora, nella analisi costi-benefici della moneta unica, a fronte degli enormi costi dovuti al mercantilismo propagato dalla Germania, i benefici per noi sono stati identificati nei bassi tassi d'interesse sui titoli di Stato consentiti dall'appartenenza all'Eurozona, necessari a tenere sotto controllo il debito pubblico. Nello scenario "di mercato", a seguito della ristrutturazione del debito, i benefici vengono largamente meno. Allora, diventa "ortodossa" una domanda: perché non dovremmo accompagnare la ristrutturazione del debito pubblico con la riconquista della moneta nazionale? Nella ristrutturazione, la Banca d'Italia, con la moneta nazionale, non potrebbe tutelare meglio gli asset interni convertiti in valuta Italiana rispetto agli asset confermati in euro sui quali, almeno in parte, si abbatterebbe la lex monetae? Per compensare l'impatto sulle banche, non potremmo intervenire con la nostra moneta?
Sono questioni difficili, da affrontare senza verità rivelate, dopo un'attenta analisi d'impatto economico e sociale sui diversi interessi interni, con la consapevolezza delle impervie difficoltà di governo politico della fase, in relazione alla necessità di salvaguardare la cooperazione tra gli Stati nazionali europei. Sono domande ignorate da una classe dirigente largamente inconsapevole. Purtroppo, vi sono tutte le premesse per un altro giro d'integrazione europea subalterna e di ulteriore svalutazione del lavoro e impoverimento della nostra democrazia costituzionale.

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