mercoledì 25 ottobre 2017

Legge Elettorale. Nord contro Sud. Così il Rosatellum spacca l'Italia in due.

La nuova legge elettorale avrebbe l’effetto di consegnare il settentrione alle destre, con Pd e 5Stelle a contendersi il Mezzogiorno. Così interessi e blocchi territoriali cambiano politica, le relazioni sociali e spaccano il Paese. 

L'espresso Marco Damilano 

Nord contro Sud. Così il Rosatellum spacca l'Italia in dueNell’Europa stretta nella morsa dei paesi che furono insieme cinquecento anni fa l’Impero degli Asburgo e che oggi sono i volti della disgregazione politica del continente, l’Austria e la Spagna, ritorna in Italia il fantasma della spaccatura, la divisione in due, il Nord in ripresa e il Sud che resta indietro. La frattura storica che il Rosatellum, la nuova legge elettorale, rischia di allargare.

Eterogenesi dei fini, ovvero effetti collaterali non previsti, anzi opposti a quanto progettato. Successe anche nel 1993, quando fu approvata la prima legge elettorale dopo la lunga stagione della proporzionale della Prima Repubblica. Seguiva il risultato dei referendum del 18 aprile di quell’anno, in piena Tangentopoli, promossi da Mario Segni, l’introduzione dei collegi uninominali e del sistema maggioritario, si chiamava Mattarellum, il primo latinorum delle leggi elettorali, il più importante e riuscito, l’unico finora costituzionale, dal nome del relatore Sergio Mattarella, all’epoca semplice deputato democristiano. Prevedeva il settantacinque per cento di collegi eletti con il sistema uninominale, 475 alla Camera, e il restante venticinque per cento (175 seggi) con il sistema proporzionale, per il voto ai partiti, su una seconda scheda
All’indomani dell’approvazione si disse che una legge elettorale di quel tipo avrebbe favorito la Lega al Nord, i post-comunisti nelle regioni appenniniche del centro Italia e i democristiani nelle regioni del Sud e che il risultato dopo il voto sarebbe stato un governo di centro-sinistra, l’alleanza tra il Pds di Achille Occhetto e il Ppi di Mino Martinazzoli. L’apparizione di Forza Italia, qualche mese dopo, scompigliò tutti i pronostici, ma non quello sul Nord egemonizzato dalla Lega. Il Polo delle libertà, l’alleanza nelle regioni settentrionali tra Forza Italia e Lega, fece il pieno: in Lombardia tra Camera e Senato conquistò 108 seggi su 109 disponibili. All’inizio della legislatura la Lega contava 122 deputati e 59 senatori, il gruppo più numeroso. Era l’inizio della questione settentrionale della politica italiana, arrivata fino ad oggi, ai referendum del 22 ottobre di Lombardia e Veneto, fortemente sponsorizzati dai presidenti di regione leghisti Roberto Maroni e Luca Zaia. E la storia sta per ripetersi.


Tutte le proiezioni effettuate sul Rosatellum, il marchingegno elettorale approvato dalla Camera che ripropone il mix uninominale-proporzionale del Mattarellum, ma in modo molto diverso dall’originale (a farla da padrone è il sistema proporzionale e il voto non è più disgiunto ma unico), rivelano che nelle regioni del Nord la rinata alleanza Lega-Forza Italia sarebbe in grado di fare da asso pigliatutto, lasciando le briciole agli altri due poli, il Pd e il Movimento 5 Stelle. I collegi non sono stati ancora disegnati e sono soltanto ipotesi, ma le prime analisi già disegnano una rivoluzione politica. Nell’ultimo decennio, infatti, il Pd e il centro-sinistra avevano dimostrato di essere competitivi anche in Lombardia dopo tante sconfitte. Avevano espugnato nelle elezioni amministrative le roccaforti di Varese, la culla del leghismo, Bergamo (con Giorgio Gori), fino ad arrivare a Milano con i sindaci Giuliano Pisapia e Beppe Sala. Nell’ultimo turno, giugno 2017, il vento è girato e il centrodestra ha ripreso Monza e ha conquistato Sesto San Giovanni, da sempre ribattezzata la Stalingrado d’Italia. Anche per le prossime elezioni regionali il vento spinge in direzione della riconferma di Roberto Maroni.

È il segno più visibile della ritirata del Pd, anche in formato renziano, nei confini tradizionali, nonostante un lavoro di accreditamento durato anni con l’elettorato settentrionale, i nuovi ceti produttivi, la borghesia urbana, culminato nel 2015, l’anno dell’Expo di Milano, quando l’allora premier Matteo Renzi aveva eletto il capoluogo lombardo a sua capitale morale e biglietto di visita nel mondo, con l’assemblea del partito celebrata nei locali dell’esposizione universale e la candidatura dell’amministratore delegato Sala a sindaco, nei mesi in cui a Roma il Pd si ritrovava inguaiato nei miasmi dell’inchiesta Mafia capitale. Una stagione che appare precocemente finita.
Ma i renziani non sono gli unici a preoccuparsi. Il percorso fissato da Silvio Berlusconi nell’intervista al “Corriere della Sera” del 17 ottobre - in caso di vittoria del centrodestra il partito che arriva primo nell’alleanza avrà il diritto di indicare al Quirinale il nome per la guida del governo - ha scatenato il panico tra gli azzurri. Da mesi i sondaggi danno un testa a testa Forza Italia e la Lega di Matteo Salvini, una guerricciola di pochi decimali di punto sul piano nazionale, che però nascondono un’amara verità per i berlusconiani collocati nelle regioni settentrionali. Qui le proporzioni tra i due partiti cambiano, in alcuni casi la Lega doppia Forza Italia e il meccanismo dei collegi finirà per premiarla. Come sanno bene i forzisti locali, divisi tra quelli che seguono il presidente della Liguria Giovanni Toti, da tempo allineati nell’asse con la Lega, e chi resiste come l’avvocato Niccolò Ghedini, tornato al vertice di Arcore, che ha fatto cadere a Padova la giunta del leghista Massimo Bitonci con il risultato di consegnare la città al centro-sinistra. In arrivo trattative serrate sui nomi da piazzare nei collegi: Umberto Bossi nel 1994 fece un capolavoro e portò a Roma il gruppo parlamentare più numeroso, ora tocca a Salvini. Il leader leghista potrebbe ritrovarsi con la designazione a premier, sempre che di Berlusconi ci si possa fidare.

Spostandosi oltre il Po, si vede che in alcune regioni rosse (con l’eccezione della Toscana, saldamente in mano al Pd) le distanze tra sinistra e destra si sono ridotte. A Roma, enorme bacino di voti che fotografa fedelmente le tendenze nazionali, servirà per capire gli umori dell’elettorato il test del 5 novembre, le elezioni nel municipio di Ostia sciolto e commissariato per infiltrazioni mafiose. Ma gli analisti del Pd sono in allarme perché ovunque, nei grandi centri urbani, il partito appare in difficoltà. Infine, ci sono le regioni meridionali che già da qualche anno si sono riconvertite dalla vocazione governativa alla tentazione anti-politica, sotto diverse specie: il voto al Movimento 5 Stelle, la fiducia verso sindaci e governatori trasversali e populisti come Luigi De Magistris, Leoluca Orlando, Michele Emiliano, o figure atipiche come Vincenzo De Luca, che accentrano i consensi sulla loro figura, al di là del partito di origine.

Nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 la vittoria del fronte del No fu schiacciante, ben sopra la media nazionale: in Campania il 68 per cento, in Calabria il 67, in Sicilia il 71,6, in Sardegna il 72,2. Ora però il gioco cambia, i tre poli tornano a scomporsi e lo si vedrà già alle elezioni regionali siciliane del 5 novembre dove il centro-destra è favorito, seguito nei sondaggi da M5S. È nelle regioni del Sud che si gioca il risultato delle elezioni politiche 2018, una partita al buio. Nel meridione svanisce il peso delle appartenenze e degli apparati, contano le persone, i candidati, i micro-notabili di cui ha scritto il politologo Mauro Calise, il “cuius regio eius religio” per cui, come nelle guerre di religione cinquecentesche, non serve convertire alla causa tutta una popolazione ma basta portare con sé il capo locale, il resto dell’elettorato seguirà. E infatti nel Pd si medita una lista civica guidata da sindaci e presidenti di regione, con licenza di spaziare in modo trasversale tra elettori e candidati.

Le elezioni siciliane in queste settimane stanno fornendo un esempio quasi insuperabile di esodi biblici, transumanze da uno schieramento all’altro: quattordici consiglieri regionali uscenti (deputati, come si fanno chiamare) sono passati al momento di presentare le liste dalla sinistra di Rosario Crocetta alla destra di Nello Musumeci, portando i loro voti in dote, si suppone.
È l’immagine di un’Italia politica spaccata a metà. Con il referendum lombardo-veneto che anticipa il futuro scontro elettorale. «Si agitano, protestano, si fanno sentire coloro che stanno meglio nel timore di perdere quello che hanno. I benestanti prendono la parole e le piazze, rispetto ai “malestanti” che ne avrebbero più causa e diritto. Un mondo capovolto, dove gli stessi partiti di sinistra per timore di essere travolti da una tendenza che non riescono a contrastare o ad attutire la seguono accodandosi», ha scritto Isaia Sales (“Il Mattino”, 17 ottobre). Il Nord, di nuovo, va al traino della Lega e di Forza Italia, con il Movimento 5 Stelle ininfluente quasi ovunque (con qualche eccezione in Piemonte) e il Pd che si è spaccato sul referendum leghista del 22 ottobre: a favore è il leader emergente, il sindaco di Bergamo Gori, prossimo anti-Maroni alle elezioni regionali lombarde, possibili ambizioni nazionali, rappresenta il volto di un partito aperto, innovativo, ma forse isolato nel resto del Paese. Nel Sud, invece, è in corso la battaglia di posizione tra notabili per accaparrarsi un posto in lista o in un collegio. E qualcuno prova già a calcolare la distanza tra le due Italie politiche, quella che vota il partito per opinione o per senso di appartenenza, e non sbarrerà il nome del candidato uninominale sulla scheda, e quella che al contrario sceglie le persone per conoscenza, scambio, clientela e trascina il voto per il partito. Kamasutra elettorale, probabile l’esaurimento nervoso per i sondaggisti che si troveranno tra qualche settimana di fronte a un rebus insolubile. Nell’attesa, finisce il sogno del partito della Nazione renziano, in grado di unire tutti e di raccogliere consensi trasversali. Quel partito non c’è più. Ma quel che è peggio è che, alla fine, anche l’Italia elettorale potrebbe rivelarsi una non-nazione.

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