lunedì 23 febbraio 2015

La polis, il nichilismo odierno e il "labirinto dell'avvennire".

Nella “Psicologia delle visioni del mondo”, un’opera del 1919, Karl Jaspers individua le ragioni ed il senso del “nichilismo” in ogni forma di ancoraggio al “vissuto contingente”. Ora, è proprio da questo radicamento nella contingenza della versione etico-politica del nichilismo che discendono diffusi atteggiamenti di indifferenza, se non di diffidenza, verso le grandi tradizioni culturali e i loro più autorevoli esponenti.

micromega giuseppe panissidi

La “visione del mondo” è la visione generale che una persona ha del mondo, di sé stessa e del proprio ruolo nel corso dell’esistenza, “qualcosa che non si esaurisce in un sapere, e importa anche una valutazione, una plasmazione di vita, un destino, una viva e intima sperimentazione di un ordinamento gerarchico dei valori”. Le visioni del mondo, dunque, “idee, manifestazioni supreme ed espressioni totali dell’uomo”, rappresentano il modo in cui il singolo individuo struttura e dà significato alla propria vita e alle proprie scelte d’indole etico-politica, culturale e civile. Quindi, alla propria condotta.

La situazione della civiltà moderna, in generale, la cui spina dorsale sono la scienza e la tecnica, fa pensare alla “scolastica” alla vigilia della scienza moderna: perché il progresso e la perfezione tecnica tendono a nascondere i veri problemi. E il problema cruciale resta sempre quello dell’’uso’ della tecnica, non la tecnica come tale, l’uso militare dell’energia nucleare, potenzialmente foriera di una conflagrazione universale, non quella forma di energia in sé e per sé.
Oppure, l’uso del web, non già il web in quanto tale, in quanto, cioè, conquista epocale e progressiva irrinunciabile.
L'uccello di Minerva, la dea della sapienza, si ricordi Hegel, spicca il volo solo a sera, dopo il tramonto del sole, poiché la ricognizione dell’esistente è un compito ineludibile. Né può attribuirsi al caso che il linguaggio tecnico continui ad aumentare in proporzioni incommensurabili, anche rispetto al più recente passato.
Se non ché, la sola risposta che possa fare breccia nel corpo del “nuovo nichilismo” non può che formularsi in un linguaggio non tecnico, per quanti, ad esempio, ancora rifiutano di prendere atto che la rivoluzione tecnologica non ha rappresentato, né di per sé può rappresentare, l’agognato salto nella libertà, il momento più alto e glorioso dell'umanità. Una pre-condizione non è sufficiente, poiché, si sa, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Senza, tuttavia, mai dimenticare che i più grandi storici (e maestri), da Gibbon a Mommsen a Rostovcev, ci hanno insegnato a vedere persino nella sconfitta di Canne una svolta decisiva nel percorso storico di civiltà dell'antica Roma.
In ogni caso, è il suggerimento di Martin Heidegger, il nichilismo “non serve a nulla metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia”.
Così inteso, il nichilismo non è certo spregevole rispetto alla sua origine, né tutto ciò a cui esso si oppone è disdicevole, poiché non tutti gli autori, non tutti i momenti della tradizione culturale di riferimento, che esso rifiuta o disprezza, sono rispettabili. All’interno di qualsiasi tradizione culturale e civile, infatti, inclusa la nostra, occorre guardarsi dall’errore di un’adesione passiva e incondizionata ai suoi paradigmi, segno di una solidarietà subalterna e priva di discernimento. Perché il primo dovere di uno studioso è l'onestà intellettuale, in reciproca coniugazione con un profondo ed autentico sentimento di giustizia.
Un passo a ritroso nella Storia. La sconfitta del nazionalsocialismo non ha significato la fine del nichilismo tedesco, poiché esso ha radici assai più profonde della predicazione di Hitler e della sconfitta della Germania nella guerra mondiale. “Tutta la nostra cultura europea – scrive Nietzsche – si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere”. Non senza ragione, Ellen Key ha definito il ‘900 come “il secolo del bambino”. Al contrario, bisogna riflettere, trovare “vantaggio nell'appartarsi, nel restar fuori, nel ritardare, come uno spirito audace, indagatore e tentatore che già si è smarrito in ogni labirinto dell'avvenire, che guarda indietro mentre narra ciò che avverrà”. Bisogna, in breve, vivere il nichilismo sino alla fine, “in sé, dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé”. Accanto a tale “nichilismo attivo”, segno di forza e crescita dello spirito, Nietzsche trova anche un “nichilismo passivo”, l’attenuazione, ossia, dell'energia dello spirito e la connessa accettazione rassegnata della crisi dell'epoca, con conseguenti vuoti di memoria e sbandamenti di testa. Sotto questi riguardi, il nichilismo si rivela prigioniero di un equivoco, che lascia aperta la possibilità di essere "per l'una o per l'altra, ma anche per l'una e per l'altra"
Molti neanche provano a capire la passione ardente che sostiene la negazione del mondo presente e delle sue potenzialità, cosicché le confutazioni stesse confermarono i nichilisti nei loro convincimenti. E però, l’esaltazione della scienza e della tecnica, e dei principi della civiltà moderna, non può mai prescindere dal pieno riconoscimento, certamente e di necessità critico e mai ‘apologetico’, delle grandi autorità culturali che ne hanno costruito la via e il fondamento, il terreno sul quale ci muoviamo e camminiamo.
Una siffatta consapevolezza si rende indispensabile anche per scongiurare che i più ardenti sostenitori del principio di progresso, un principio essenzialmente ‘aggressivo’, siano poi costretti ad assumere posizioni difensive. E nel campo dello spirito, assumere una posizione difensiva equivale ad ammettere la propria sconfitta. A larghe fasce della giovane generazione, le idee della civiltà moderna sembrarono vecchiume, archiviate dalla emergenza del web, al punto che i partigiani dell'idea di progresso si trovano nella scomoda posizione di dover resistere, alla maniera dei conservatori, alla cosiddetta “onda del futuro”. Il “labirinto” di Nietzsche, la “musica del futuro”.
E però, bisogna anche comprendere che “labirinto”, in conformità al suo etimo, è un lemma ambiguo, di cui Platone per primo non mancò di sottolineare l’ingannevolezza: “Caduti come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine, risultò che eravamo tornati come all’inizio…e avevamo bisogno di cercare la medesima cosa di cui avevamo bisogno quando avevamo cominciato a cercare”. Il che significa che l’esito, letteralmente l’uscita, non è mai pacifico e scontato, dal momento che sussistono sempre due possibilità: raggiungere la meta o ritrovarsi al punto di partenza.
Sebbene, dunque, il carico e la coscienza critica di una tradizione culturale inevitabilmente comportino qualche svantaggio, essi fanno comunque premio sul nichilismo passivo, anche se esso, scevro di simili impedimenti, dispone di una (quasi) completa libertà di movimento. E, certamente, nelle guerre dello spirito, non meno che nelle guerre reali, la libertà d'azione è un eccellente viatico per la vittoria. Di converso, gli avversari del nichilismo hanno molti vantaggi, ma e nel contempo le invalidità tipiche dell’intelligencija.
Ebbene, il web sembra fatto apposta per incoraggiare ed alimentare la cieca irresponsabilità e la “peste emozionale”, fino a raggiungere forme di parossismo o banditismo verbale, per quanti hanno bisogno di rapidi ed efficienti strumenti sublimazione compensatoria delle proprie violente pulsioni e frustrazioni irreparabili. E però, anche i totalitarismi trasudano ‘efficienza’, anche il nazionalsocialismo era oltremodo efficiente, sostenuto com’era dalla micidiale temperie spirituale nichilista. Al punto che George Mosse, in riferimento al fenomeno epocale della “nazionalizzazione delle masse”, scorge nel nazismo non già un problema storiografico del passato, ma bensì un “problema del futuro”. L’antipode del predetto “labirinto dell’avvenire” di Nietzsche, fulcro prospettico del “nichilismo attivo”. Altro l’ambito e l’orizzonte di ciò che è ‘democraticamente’ efficiente, evidentemente. Altro.
La metafora. In un celebre racconto, un nazista rivendica la “vittoria” davanti a un soldato americano. Perché, domanda sgomento quest’ultimo. “Perché vi abbiamo resi come noi”, la risposta.
Mette conto rammentare che, in questo blog, ho recentemente richiamato lo squallido caso di un bandito del web, responsabile di un’accanita, delinquenziale persecuzione, come tale stigmatizzata in ogni dove, nei riguardi di una scrittrice all’interno di una comunità virtuale. Le sue antigiuridiche condotte sono ora al vaglio della competente autorità giudiziaria, in ragione della specifica previsione incriminatrice presente in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali, con punte di maggior rigore in USA, Germania, Francia e GB. Ebbene, al di là del deterrente legale, un felice viluppo di “metanoia” e contrizione, riflessione e trasformazione interiore, ha indotto quell’uomo a “cambiare vita”, finalmente consapevole che la sua personale libertà (d’espressione) incrociava(va) un limite inesorabile nel punto di incontro - “overlapping”: parola sua - con la pari libertà, la pari dignità e i pari diritti altrui, costituzionalmente protetti. Consapevole, perciò, che la sua pregressa ubriacatura da web, intrisa di protervia nichilista, perverso surrogato di un’indigesta volontà di (im)potenza e violenza verbale, poteva trovare posto nella giungla, ma non aveva diritto di cittadinanza nel consorzio civile democratico.
Dall’Illuminismo greco in poi, l’apertura dello spazio della “doxa”, l’habermasiana ”Öffentlichkeit”, la sfera dell’opinione, esige tale indefettibile consapevolezza, a pena di regressioni impensabili, anzi inconcepibili.
Né vi sono margini per un’interpretazione del dilagante malcostume in parola in una prospettiva “cinica”, classica o moderna che sia. La ‘rivoluzione cinica’ del IV secolo, infatti, già a partire da quella che chiamerei la grande e salutare “provocazione” di Antistene, si distinse per l’alta intonazione umana ed etica, integrante un nucleo essenziale di nuovi ‘valori’, perché ‘valore’ non è l’idea astratta, ma bensì ciò che conta per noi, pur sempre “in situazione”, come direbbe J. P. Sartre.
A dispetto di una scepsi radicale, il cinismo propugnava con forza l’amore per gli esseri umani, l’”atuphia”, o moderazione, e l’affrancamento dall’ignoranza e dal “tuphos”, o follia. Diogene Laerzio, ad esempio, o Diogene di Sinope non lanciavano demenziali, gratuite aggressioni nei confronti di chicchessia, mentre si rivoltavano, invece ed opportunamente, contro la corruzione dei costumi e i mali della società del loro tempo, al pari di Ipparchia o Menippo di Gadara. All’intemerata ricerca dell’”areté”, la virtus del successivo stoicismo, e dell’autonomia dello spirito, rispetto alla ‘décadence’ di una grande cultura e civiltà, previa negazione della religione tradizionale, delle istituzioni sociali e delle consuetudini vigenti.
Significativo trait d’union con questa illuminata temperie spirituale d’origine, la moderna tradizione culturale che, tra gli altri, comprende Machiavelli ed Hobbes, Schopenhauer e Leopardi, Oscar Wilde e Nietzsche.
Posta strategica in gioco, ora come allora, la salvaguardia dei valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, che collocano la ‘persona’ al centro dell’attenzione e dello spazio delle libertà e della giustizia, nel quadro del mantenimento e dello sviluppo di valori comuni, e nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni costituzionali di ciascun popolo dei popoli europei, dell'identità nazionale degli Stati e dell'ordinamento dei loro pubblici poteri.
Proprio a tal fine, si è reso necessario renderli visibili nelle Carte dei Diritti fondamentali, onde rafforzarne la tutela alla luce dell'evoluzione e del progresso sociale, nonché degli sviluppi scientifici e tecnologici. Il godimento di questi diritti, di per sé, vale a radicare responsabilità e doveri nei confronti degli altri, come dell’intera comunità umana e delle generazioni future.
Se la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, all’art. 19, prevede tassativamente il “rispetto dei diritti e della reputazione altrui”, la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”, in vigore dal 1953, statuisce che “ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee”. Informazioni o idee, non insulti ed offese. Tanto vero che “l’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica…la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui”.
Perché, “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, secondo recita l’articolo 1 della citata “Dichiarazione universale dei diritti umani”.
Elementare? Chissà. Concetti troppo complicati…per la scuola materna.
Al netto della crassa ignoranza, o delle patologie esistenziali, jaspersiane e non, la storia dell’idea di libertà, in reciproca coniugazione con immagini plurali, epperò plausibili, della ragione, da Aristotele a Kant, da Croce a Berlin, sta tutta dalla parte di quell’uomo, che, giungendo a ricomporre il suo essere-uomo tra gli uomini, si è infine rivelato fondamentalmente sano.
Una grande tradizione culturale molto (molto) scomoda. Per taluni soltanto, fortunatamente. Per chi, in particolare e tra le altre amenità, ha l’ardire grottesco di collocare sul medesimo piano l’altezza delle invettive letterarie o professionali e l’infima schiuma delle patologie del web, spesso generate da cause e finalità inconfessabili, da tempo analiticamente descritte in un’ampia gamma di studi. Altro il nichilismo passivo e pulsionale, altro la ‘stimmung’, pur aspra e vivace, della libera dialettica democratica e della conversazione morale, insostituibile fonte di ricchezza e progresso, purché sempre ed in modo intransigente rispettosa dell’umano, specie se incolpevole e, pertanto, bisognoso e meritevole di incondizionata protezione. Altro, insomma, la costruzione di ‘discorsi’, altro il loro sfasciamento fine a sé stesso, mediante l’irrazionale inquinamento del comune terreno dialogico, a scopo palese e barbarico di sabotaggio. Scopi, talora, addirittura confessi, in assenza persino di ‘motivazioni’ generiche, se anche faziose e settarie.
Forse giova ricordare che, in Russia, il termine “nihilista” nasce per la prima volta nel 1829, più di trent’anni prima del romanzo “Padri e figli” di Ivan Turgenev, in un articolo dal titolo “L'adunata dei nihilisti. Scene della fiera letteraria”. Esso definiva nihilisti coloro che “non sanno e non capiscono nulla”: quell’anti-pensiero, per l’appunto, evocato dallo scrivente nel suo blog. Di certo, non la formazione di caratteri “criticamente pensanti”, per citare una pregnante espressione di Franco Venturi nel suo vecchio, ma fondamentale saggio sul “populismo russo”. Con il rischio concreto che il web finisca miseramente per identificare di fatto il nome nuovo del nichilismo, il suo inaudito sbocco ‘istituzionale’, un immenso bacino-discarica.
Invero, stato di natura, stato civile e stato mentale confusionale sono destinati a coesistere nell’era del web. E tuttavia, lo stesso ipotetico “stato di natura” della filosofia politica hobbesiana contempla e prescrive precise “leggi di natura” – non principi etici oggettivi - in forza delle quali nessuno può infrangere il ‘pactum’ contratto con il potere comune, a pena di auto-contraddizione ed auto-distruzione. Il trasferimento del proprio “diritto assoluto”, infatti, esclude la possibilità di conservarlo per sé, cosicché, le nozioni di “giusto” o “ingiusto” si sussumono entro questioni di “coerenza” logica, che appaiono e sono talmente cogenti da inibire la possibilità di trovarsi in contraddizione con sé stessi. “L’ingiuria e l’ingiustizia nelle controversie del mondo – scrive Hobbes – è qualcosa di simile a ciò che nelle controversie degli scolastici è chiamato assurdità”. Per queste ragioni, e non già in forza di ideali morali superiori, è la natura stessa a tracciare la via della composizione del (potenziale) conflitto generale, che mette a repentaglio il principio stesso e, dunque, la possibilità/necessità dell’auto-conservazione. La via prende il nome della “ragione”, rinuncia auto-limitante all’”arbitrio” naturale, per conservare tanta libertà quanta si vuole che gli altri abbiano nei propri confronti.
E’ patente che tali capitali criteri di rilevanza innervano non soltanto i moderni sistemi della giurisdizione penale, ma, altresì – eterogenesi dei fini - l’intera costellazione delle etiche politiche e civili.
Perché, “nel mondo – scrive Hobbes – si chiama ingiustizia o ingiuria annullare volontariamente ciò che si era stabilito volontariamente”. Quando ciò si verifica, la forza dello Stato deve prospettare ai trasgressori pene maggiori dei vantaggi da loro sperati nell’atto di violare il patto sottoscritto. In una siffatta condizione, infatti, non è possibile neppure lo sviluppo economico, industriale, commerciale, scientifico e tecnico.
Ma, soprattutto, “non ci sono arti, né letteratura, e non esiste una società e quella che è la cosa peggiore fra tutte la vita dell’uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve”. Né avrebbero senso alcuno le nozioni di “giusto” e “ingiusto”, tutto esaurendosi nella prigione mortale di cieche pulsioni istintuali. “Dove, infatti, non c’è un potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge non c’è ingiustizia”. E neppure giustizia, evidentemente.
Chi vagheggia… paradisi perduti?
Giuseppe Panissidi
(23 febbraio 2015)

Nessun commento:

Posta un commento