domenica 18 febbraio 2018

In migliaia in piazza per il Kurdistan, per Afrin e per la resistenza dei popoli del Nord della Siria Dal corteo di Roma una riflessione più ampia sull'urgenza della pratica antifascista ogg


 
roma_kurdistan
 global project Anna Irma Battino, Marco Sandi
17 / 2 / 2018
Essere in piazza oggi a Roma era un dovere. Essere al fianco del popolo curdo, soprattutto in un momento storico come questo, significa essere al fianco di chi è in prima linea contro il fascismo.
Un tema molto caldo nell’ultimo periodo - in tutta Italia e sotto campagna elettorale - quello del fascismo; un tema molto attuale nelle sue diverse sfaccettature e nei diversi modi in cui lo stiamo vedendo fronteggiare, da Macerata a Piacenza, da Padova a Bologna. Se è vero che le piazze italiane non possono essere comparate con quelle turche, è però vero che il fascismo italiano può, e deve, essere trattato come il fascio-islamismo turco.
Non vi è alcuna differenza tra chi pretende di governare attraverso la paura e la violenza e chi la pratica per garantirsi agibilità politica. Non vi è alcuna differenza tra chi, indottrinato a dovere, compie un attentato nel centro di Parigi e chi, altrettanto indottrinato, impugna una pistola e spara a delle persone in una piccola provincia del centro Italia. Non vi è differenza da chi viene ammaestrato dentro una moschea e chi invece istruito a dovere nella sede di un partito politico. Il lavaggio del cervello e ricevuto sono esattamente gli stessi, così come uguali cono le forme e le pratiche. Non serve essere degli esperti per riconoscerlo, visto che la bandiera che questi sventolano è dello stesso colore nero.
Il merito di una manifestazione come quella di oggi a Roma è stato quello di mettere in connessione quanto sta succedendo nelle piazze delle città italiane con quello che succede in Medio Oriente, dove una straordinaria resistenza permette alla rivoluzione curda di sopravvivere, in particolare nel Cantone di Afrin, attaccato militarmente dalla Turchia. Forse non serve scomodare precedenti, non serve evocare uno spirito di emulazione, ma sicuramente va ricordato che queste persone non hanno nulla da perdere e sono pronte a tutto pur di difendere la propria terra, e Kobânê e la sua storia dovrebbe essere un’importante monito per chiunque. «Se voi fate come l’Isis, noi faremo come Kobânê» avvertivano i curdi, scrivendolo sui muri delle città del Kurdistan Bakur; «Ieri Kobânê, oggi Afrin» veniva ricordato durante gli interventi al corteo.
La manifestazione di oggi aveva diverse parole d’ordine, una della quali si concentrava sulla libertà di Abdullah Öcalan e di tutti i prigionieri politici in Turchia. Erdogan sembra aver fatto scuola nell’ultimo periodo. Se è vero che in Turchia le libertà democratiche sono ormai sparite dietro lo scettro della repressione poliziesca da ormai molti anni, assistiamo negli ultimi giorni a colpi di coda della suddetta spirale repressiva. Centinaia di persone sono state arrestate semplicemente per aver osate criticare l’operato governativo nell’ambito dell’operazione militare contro Afrin. Si fa presto ad ergersi campioni nostrani della democrazia condannando le contestazioni ed esprimendo solidarietà verso chi le riceve in piazza, ma dall’altra parte, in nome di un’inspiegabile e insensata ragione di Stato, stringe la mano ad un dittatore sanguinario che la democrazia da tempo l’ha nascosta sotto lo zerbino d’ingresso.
È altresì assurdo che una manifestazione annunciata come pacifica e che chiede la fine di un’aggressione venga intimidita ai caselli dell’autostrada con controlli, perquisizioni e militarizzazione delle piazze. Sembra proprio che nell’incontro romano di qualche giorno fa Erdogan abbia catechizzato per bene la controparte italiana sul controllo del dissenso. Tutto senza che una voce contraria si sia alzata a livello istituzionale.
Il paragone tra Italia e Turchia è molto forzato, forse esagerato, ma i fatti delle ultime settimane nella nostra penisola non sembrano smentirlo del tutto. Mentre oggi si chiedeva la liberazione di Öcalan e degli altri prigionieri, si alzava unito il coro per chiedere la liberazione dei tre attivisti arrestati ieri per i fatti di Piacenza, dove avevano messo in prima linea i loro corpi per fermare l’apertura di una sede di Casa Pound. Esattamente come fa in Kurdistan chi lotta quotidianamente per fermare l’avanzata reazionaria delle forze militari turche e dei suoi alleati jihadisti.
Le piazze antifasciste sono quelle più duramente represse nell’ultimo periodo, come dimostrano le violenti cariche a Bologna ieri, e questa criminalizzazione porta a una pericolosa delegittimazione dall’alto dell’antifascismo. Allo stesso tempo vediamo emergere nuove resistenze, soggettività e spazi politici aperti dal basso.
Quando guardiamo all'internazionalismo - e all’esperienza curda in particolare - non possiamo non parlare di antifascismo e non fare un paragone.
E forse da quello spirito di resistenza che Afrin sta mettendo in campo, dovremmo continuare ad attingere e non abbassare la testa.

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