lunedì 23 aprile 2018

Volevate un po’ di redistribuzione? Eccovi una doppia dose di austerità…

contropiano

Non capita spesso che direttori di quotidiani economici alzino la voce – ferocemente critica – nei confronti degli istituti sovranazionali che dettano il tempo delle “riforme” da fare nei singoli stati.
I media e le principali forze politiche hanno abituato il pubblico a prendere per oro colato, “scienza infusa”, le prescrizioni mortifere del Fmi, dell’Ocse, della Bce. Dunque che qualcuno, da dentro le istituzioni attive nell’informazione economica di qualità, sbeffeggi l’ennesimo report del Fondo Monetario Internazionale, è una novità di cui dar conto.

Tanto più se questo report contiene come al solito un capitoletto micidiale per l’Italia. Non siamo rimasti sorpresi, perché ce ne eravamo accorti anche noi, dedicando a questa sortita ben due articoli.
Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, ma anche ex direttore generale Fondazione Ugo Bordoni, ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi, coglie in questo report del Fmi anche un ritorno alle vecchie analisi, quelle usuali prima che la crisi del 2007-08 spargesse il terrore sul pianeta. Quella crisi non è ancora finita, anche se i suoi effetti peggiori sono stati in qualche misura attenuati dall’intervento massiccio delle principali banche centrali del mondo (Bce, Federal Reserve, Boj, Banca d’Inghilterra, ecc), che hanno inondato di liquidità un circuito finanziario improvvisamente inaridito dal timore di crack.
Ma è bastato che “la crescita” – di rimbalzo, dopo la caduta – proponesse qualche cifra meno disperante delle precedenti per far tornare il Fmi alle “antiche certezze”. Quelle che, dice anche Salerno Aletta, sono quelle che hanno portato il sistema contro il muro senza neanche vederlo.
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Quelle tasse che vuole imporci Madame Lagarde

La tregua è finita: con un documento di lavoro dal titolo suadente, “Verso una riforma fiscale favorevole alla crescita” (WP/18/59), il Fmi è tornato alla carica sulla necessità che l’Italia continui sulla strada delle riforme intraprese, intervenendo nuovamente sulle pensioni, sul sistema tributario e sulla razionalizzazione della spesa.
Si parte dalla considerazione che, sin dal 1996, la spesa primaria è cresciuta più velocemente del pil potenziale, notando però che l’alto costo del debito pubblico implica che il totale delle spese sia superiore alla media dell’eurozona: nel 2015, è ammontata al 50,4% del pil, rispetto al 48,5%. Sempre nel 2015, gli interessi sul debito sono stati pari al 4,2% del pil, rispetto al 4% delle spese destinate all’istruzione ed all’1,2% di quelle destinate alla difesa.
Si comincia dalle pensioni. Il sistema attuale è troppo generoso con le prestazioni in corso: andando molto per le spicce, perché è impossibile un ricalcolo su basi retributive, si propone di intervenire togliendo direttamente la quattordicesima e la tredicesima mensilità a tutti coloro che beneficiano del sistema retributivo o misto. Occorre poi far pagare i contributi sanitari sulle pensioni, ed imporre una serie di limitazioni ai trattamenti di reversibilità, che ammontano al 28% della spesa pensionistica. Le prospettive di sostenibilità del nostro sistema pensionistico sarebbero catastrofiche già nel brevissimo periodo: per far esplodere la spesa è bastato aggiungere in un grafico la stima dell’Onu sull’andamento demografico, oppure abbattere la percentuale della popolazione attiva.
Anche il sistema fiscale va riformato: le imposte sul reddito sono caratterizzate da aliquote assai elevate, ma si applicano su una base tributaria molto ristretta. Inoltre, ci sono troppe deduzioni e detrazioni, su cui un ampio spazio di razionalizzare da fare per aumentare il gettito. Ad esempio, andrebbe introdotta una “tassa moderna” sulla proprietà della prima casa, aggiornando i valori catastali. Inoltre, andrebbe eliminata in quanto “inefficiente” anche la detrazione della spesa per interessi sui mutui.
Lo studio non tiene conto di quanto è accaduto in questi anni: per le abitazioni esistenti, la caduta dei prezzi accumulata dal 2013 al terzo trimestre del 2017 è stata del 9,1%. Tra il terzo trimestre del 2017 ed il corrispondente periodo del 2016, c’è stato ancora un calo dell’1,3%. Aumentare il gettito fiscale e colpire ancora con la tassazione il comparto immobiliare avrebbe conseguenze devastanti: si ripeterebbe lo scenario iniziato nel 2011, quando per aumentare la competitività attraverso la deflazione salariale, si distrusse la domanda interna, si introdusse l’Imu anche sulla prima casa, e si proseguì aumentando l’Iva e le accise sui carburanti.
Ne è risultata una recessione assai più profonda del previsto, per cui anche il Fmi ha dovuto rivedere le sue valutazioni sul moltiplicatore fiscale. Il rapporto debito/pil è aumentato per il crollo di quest’ultimo e della disinflazione. Le imposte patrimoniali e la crisi della domanda hanno contribuito insieme ad abbattere il valore di mercato degli immobili e quello delle garanzie assunte dalle banche. Queste hanno dovuto effettuare accantonamenti e ridurre le erogazioni, avvitando la caduta del mercato. Di tutto questo, non si tiene conto.
Il dibattito sulla politica economica è tornato a concentrarsi sull’elevato livello del debito pubblico, in vista di una normalizzazione dei tassi di interesse dopo la conclusione del Qe da parte della Bce. Generalmente, si propende per l’aumento dell’avanzo primario, prospettiva quanto mai difficile da raggiungere: il Def per il 2012 presentato dal governo Monti prevedeva di passare dall’1% del 2011 al 5,5% nel 2015, per arrivare al 5,7% nel 2016. In realtà, il saldo primario è stato dall’1,5% ancora nel 2015 e dell’1,7% del 2017; quest’anno dovrebbe arrivare al 2%, e poi al 3% nel 2020.
Il nodo risiede nell’effetto fortemente deflattivo di questa strategia, soprattutto se si basa su misure fiscali strutturali: gli operatori economici sanno che lo Stato restituirà con le spese finali assai meno di quanto preleva con la tassazione e quindi diminuiscono sia la propensione ad investire che quella a spendere. Chi più fa avanzo primario, più riduce il ritmo di crescita, e così facendo si allontana dall’obiettivo cui tende.
Ci saremmo aspettati una rilettura organica di quanto è successo in questi anni, con l’aggrovigliarsi di effetti che nessuno aveva previsto. Ma, soprattutto, una critica serrata, conti alla mano, dei programmi elettorali presentati in vista delle elezioni tenutesi il 4 marzo scorso. Ed invece, in appena 37 pagine, indice compreso, gli economisti del Fondo hanno ripetuto analisi e proposte che è fin troppo generoso definire trite, sommarie, e francamente deludenti.
Non si sono dati neppure la briga di considerare le proposte di tassazione patrimoniale avanzate da alcuni politici e studiosi italiani, per abbattere il debito e finanziare contemporaneamente gli investimenti pubblici. Neppure un accenno al dibattito sul futuro delle detenzioni di titoli pubblici acquisite nell’ambito del Qe, che per l’Italia sono di 337 miliardi di euro, una somma che vale da sola il 15% del debito in essere. Neanche un accenno al timore che vengano imposte condizioni alle detenzioni di titoli pubblici da parte del sistema bancario, che a fine 2016 ne aveva per ben 595 miliardi di euro.
Questioni politiche, sociali ed economiche di enorme rilievo vengono banalizzate, trattate come gli ingredienti per la preparazione del tacchino di Natale: un atteggiamento supponente, e francamente urticante. Non aver capito la lezione degli ultimi anni è grave, soprattutto da parte di chi si propone di suscitare il dibattito ai livelli più alti. Con gli occhi chiusi, si va a sbattere.

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