giovedì 1 marzo 2018

Il programma di Potere al Popolo: intervista a Viola Carofalo



 


 dinamopress
A pochi giorni dalle elezioni, abbiamo raggiunto telefonicamente Viola Carofalo, attivista del centro sociale Ex Opg – Je So’ Pazz di Napoli. Europa, reddito, lavoro e giustizia sono alcuni dei temi al centro dell’intervista nella quale la portavoce di Potere al Popolo presenta la sfida della neonata formazione politica di sinistra
Partiamo da un bilancio della campagna elettorale. Tra gli obiettivi della sfida che avete lanciato c’era quello di dare centralità a tematiche altrimenti assenti dalla contesa elettorale e di attivare energie oltre i soggetti organizzati che hanno lanciato quest’esperienza. Che valutazioni fai?
L’hanno detto tutti e lo ribadisco anch’io: è stata la campagna elettorale più brutta di sempre. In parte a causa della legge elettorale che determina una sensazione di incertezza e inutilità del voto, in parte per la centralità di un tema agghiacciate come il razzismo, con una continua rincorsa a destra e una gara a chi dichiarava di odiare di più i migranti. Tutto ciò lascia un segno che va ben oltre il 4 marzo. Se semini certi ragionamenti, raccogli frutti molto pericolosi.
Per quanto ci riguarda, anche se ovviamente sono di parte, abbiamo fatto una campagna meravigliosa, facendo di necessità virtù, dato che non ci potevamo permettere megacartelloni, grandi manifesti o spot televisivi. Siamo andati forte sui social, anche secondo analisi di settore che hanno studiato e comparato gli andamenti delle campagne delle varie formazioni politiche. Siamo riusciti ad arrivare a giovani e giovanissimi, che votavano per la prima volta. E questo ci interessava molto.
La nostra è stata una campagna sul territorio, senza soldi né sponsor. Abbiamo semplicemente continuato a fare ciò che abbiamo sempre fatto: lotte sul territorio, iniziative di contrasto alla povertà, sostegno a lavoratori e migranti, attività di supporto a comitati locali ambientalisti. Abbiamo continuato a fare “il nostro lavoro”, anzi lo abbiamo potenziato e inserito in questa cornice.
In occasione dell’emergenza freddo, stiamo facendo ciò che è giusto e necessario, proprio per contrastare quel discorso di odio nei confronti degli ultimi, dei più poveri, degli stranieri. Abbiamo approfittato del fatto che stiamo in giro per attacchinare i nostri manifesti per distribuire anche coperte e pasti caldi. Vogliamo dimostrare di essere un paese solidale, al di là del racconto che ci viene propinato. È stata in generale una bella campagna anche se con poca visibilità, pochi media e pochi soldi.

Si è prodotta un’attivazione di soggetti nuovi, che non facevano parte delle strutture già organizzate che hanno aderito a Potere al Popolo,? 
Sì. In particolare abbiamo riscontrato risposte in due categorie di persone: quelli che non ci credevano più, che torneranno a votare dopo molti anni di delusioni e che oggi invece hanno affittato vecchi locali condominiali per fare riunioni, per parlare e far conoscere la nostra lista. Non si tratta di nostri militanti, ma di persone che non avevamo mai incontrato nei nostri percorsi. E poi moltissimi giovani, al loro primo voto.
Non potendo permetterci di commissionare sondaggi abbiamo fatto dei “sondaggi casarecci”, che sappiamo bene avere poco valore statistico, ma ce l’hanno se si vuole raccontare il significato della nostra campagna. Siamo andati fuori dalle scuole e abbiamo parlato ai ragazzi dell’ultimo anno, dei loro problemi e delle loro intenzioni di voto. E là siamo andati molto bene. Ripeto poco valore statistico, ma una bella soddisfazione!

Per entrare più nel merito delle vostre proposte partiamo dal lavoro, che avete messo al centro della campagna elettorale. “Lavorare meno, lavorare tutti” e “centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato” sono i due pilastri del vostro impianto. Ma in questa fase aspirate alla piena occupazione? E per i milioni di lavoratori autonomi, free lance, partite iva cosa proponete?
Io non voglio costringere chi lavora a partita Iva a lavorare con il contratto a tempo indeterminato. Si tratta di parlare di garanzie. Dietro le partite Iva molto spesso si nascondono una serie di lavori in realtà pienamente subordinati, con vincoli gerarchici e di orario. È una condizione diffusissima soprattutto tra quelli della mia generazione, tra i 30 e i 40 anni, nei più differenti settori professionali. Il lavoro andrebbe tradotto in lavoro garantito, questo è il punto. Il lavoro a partita Iva è lecito, ma non quando nasconde una totale assenza di diritti. E ciò comporta anche un problema dal punto di vista contributivo, cosa di cui non parla nessuno. C’è un gap previdenziale enorme che riguarderà soprattutto le partite Iva e chi ha lavorato in modo discontinuo e in forma precaria, in pratica quanti andranno in pensione tra 20-30 anni, se mai ci andranno.
Negli ultimi 15 anni, e il Jobs Act è stato solo la ciliegina sulla torta, abbiamo visto una maggior precarizzazione del lavoro, che ci è stata raccontata invece come maggior libertà, flessibilità, possibilità di non annoiarsi con lo stesso lavoro. Chiunque abbia vissuto il mondo del lavoro in questi anni sa che è esattamente il contrario. Non si è liberi di nulla, vieni costretto a venderti al minor costo possibile perché altrimenti puoi essere licenziato, anche senza giusta causa, tanto senza l’articolo 18 all’azienda basta pagare una piccola multa. Ci hanno truffato.
Quindi bisogna ripensare il lavoro come una parte della vita che dovrebbe essere garantita ed essere più stabile e sicura. Quando diciamo “lavorare meno, lavorare tutti” sta ad indicare che non può essere giusto che ci sia gente che si ammazza di lavoro e altri che non riescono nemmeno a cominciare a lavorare. Deve per forza esserci una redistribuzione dei carichi di lavoro.

A proposito di garanzie, rispetto al reddito avete inserito nel vostro programma un reddito minimo a tempo determinato, vincolato all’uscita dalla povertà. In cosa si differenzia dalla proposta del M5S o dal REI del governo Renzi? E in cosa si differenzia dai modelli europei di workfare, in cui il reddito è vincolato all’accettazione di ogni tipo di lavoro? Il Piano femminista di Non Una di Meno ad esempio parla di reddito di autodeterminazione. Cosa ne pensate? 
Sulla proposta del Movimento 5 stelle ho sentito alcuni loro esponenti parlarne come una sorta di elemosina. Noi non la intendiamo in questo senso, ma crediamo che il reddito sia una forma di redistribuzione della ricchezza. In secondo luogo, con il reddito di cittadinanza proposto da M5S attraverso le agenzie del lavoro puoi essere dislocato su tutto il territorio nazionale, senza vincoli, ma se rifiuti perdi diritto. È insostenibile, sia economicamente che come scelta di vita.
In altri Paesi europei dove c’è il reddito, pensiamo all’Inghilterra, l’impressione è che vi sia una precarizzazione eterna. Si passa da un lavoretto all’altro, da un’instabilità all’altra. Ti permettono di sopravvivere, ma restando sempre in bilico, e costringendoti poi ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Quando noi diciamo che il reddito è uscire dalla povertà, significa che in una situazione di precarietà diffusa, nel momento in cui provi a invertire questa tendenza, costruendo un mercato del lavoro dove ci sia realmente lavoro per tutti, è necessario che ci siano misure provvisorie, temporanee che consentano di sopravvivere in questa fase di passaggio.
L’obiettivo per noi resta il lavoro per tutti, per questo abbiamo inserito il punto sul reddito nella “sezione  welfare” del nostro programma. Il reddito per noi è un ammortizzatore, un sostegno, ma al centro resta il diritto e l’accesso al lavoro sicuro, degno e non massacrante. Il rischio, altrimenti, è quello di essere mantenuti nella continua ricattabilità, come accade in Inghilterra e come propongono anche i 5 Stelle.

Quindi una proposta di reddito non condizionato all’obbligo ad accettare un lavoro non vi convince? 
Certo che ci convince, il reddito deve essere incondizionato. Solitamente si dice che in questo modo non lavorerebbe nessuno, noi invece diciamo che non è assolutamente vero: se tu trasformi il mercato del lavoro, a quel punto hai un lavoro che ti consente di guadagnare di più e vivere meglio. Il reddito non può essere condizionato, altrimenti non può che diventare un altro strumento di schiavitù.

Ha fatto molto discutere il punto di programma sulla giustizia. Ormai associare la sinistra al garantismo sembra impossibile e quando avviene è solo per opportunismo. Voi proponete depenalizzazione dei reati legati alle lotte sociali, abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. Che riscontri avete avuto su questi punti? 
Sono punti difficili, non lo nego. Ma la verità è che noi prima di piacere a tutti vogliamo essere coerenti con noi stessi. Quando ci dicono «ma non avete paura di risultare populisti?», noi rispondiamo di «no», perché i populisti parlano alla pancia delle persone, noi invece vogliamo essere popolari e parlare alla testa e al cuore.
Partiamo dai criteri per la formazione delle liste elettorali: sappiamo che è stato molto di moda (a partire dal M5S) dire che i candidati devono avere una fedina penale assolutamente pulita, nessun carico pendente, ecc. Secondo me questo è un principio cretino: dipende dai reati. Che Nicoletta Dosio, una delle nostre candidate, possa avere avuto delle denunce o delle condanne perché insieme a tanti altri si è battuta contro la costruzione della TAV, per me è una medaglia, non certo una ragione per l’esclusione dalle liste. Questo stesso principio vale per tanti sindacalisti che hanno fatto lotte e picchetti sul posto di lavoro, per tanti attivisti, per chi sta nei posti occupati. Dipende il motivo per cui ti denunciano: un conto è avere denunce per corruzione legate al tuo ruolo politico, un conto è se le hai per le ragioni prima elencate.
Il 41 bis è un punto molto controverso. Con assoluta cattiva fede ci hanno detto che volevamo in questo modo fare un favore alle mafie o addirittura che dalle mafie cercavamo i voti. Per noi in realtà il problema è ripensare complessivamente il carcere: come previsto dalla Costituzione, il carcere dovrebbe avere una funzione rieducativa. Sono stata a fare una visita a Poggioreale, un carcere costantemente sovraffollato, con il tasso di suicidi più alto d’Italia. Il motivo è che il carcere in Italia fa schifo, non funziona, ha il tasso di recidività fra i più alti d’Europa, è una discarica sociale all’interno della quale finiscono solo i poveracci, quelli che fanno reati minori e non si possono permettere un buon avvocato. Il carcere non può essere una vendetta, per questo proponiamo una serie di interventi, ad esempio un bilanciamento tra personale della polizia penitenziaria e assistenti sociali, psicologi, e tutte quelle figure che possono accompagnare il processo di reintegrazione.
Rispetto al 41 bis, grandi istituzioni internazionali sottolineano che debba essere considerato una forma di tortura. So bene che è più facile dire che «chi ha compiuto delitti efferati deve marcire in galera, morire o soffrire». Noi certamente non chiediamo che i mafiosi domani escano nei prati a correre, chiediamo che chi ha commesso delitti terribili – e da persona del Sud so quanto hanno fatto male al mio territorio – rimanga in carcere, non continui a delinquere e non possa comunicare con l’esterno. Ma questo non ha nulla a che fare con tutti gli elementi puramente afflittivi che fanno da corollario al 41 bis: non potersi cucinare del cibo, non poter avere foto dei parenti o libri o poster in cella, tutto questo non incide con la possibilità di delinquere, ma solo con la voglia di vendetta, legittima nel caso in cui si è un amico o un parente di una vittima, ma che in ogni caso non può appartenere allo Stato. Il problema è che le altre forze politiche pur di conquistare voti sono capaci di parlare perfino di introduzione della pena di morte.

Dal punto vista dei legami internazionali, avete preso a modello e stretto rapporti con La France Insoumise di Mélenchon. Cosa ne pensate invece dell’esperienza di Podemos? E del tentativo di Yannis Varufakis e altri di creare, con DIEM, un nuovo soggetto politico europeo? In generale avete detto di essere “europeisti ma contro questa Europa”. Puoi spiegarci meglio la vostra posizione su questo tema?
Mélenchon l’abbiamo incontrato a Parigi ed è venuto anche a Napoli, proprio all’Ex Opg, lo spazio sociale di cui sono attivista: c’è uno scambio interessante, a maggior ragione perché secondo noi è fondamentale attestarsi su un livello continentale, perché pensiamo l’attacco che subiamo si collochi su quel terreno. Mélenchon ha formulato un’opzione convincente rispetto all’Unione Europea, quella che loro chiamano Piano A e Piano B. Il primo piano prevede la revisione radicale dei trattati che limitano la sovranità dei paesi e che toccano temi fondamentali come quelli della spesa sociale. Mi riferisco ad esempio, per l’Italia, al pareggio di bilancio inserito in Costituzione: per noi è chiaro che il pareggio di bilancio ha comportato una compressione della spesa per i servizi come scuola, sanità, ecc. Per questo questi trattati vanno radicalmente ribaltati. Se questo si potesse fare, sarebbe il nostro primo obiettivo, il Piano A. Ma se quest’obiettivo non è raggiungibile, non possiamo morire per l’Europa, continuando ad abbassare il costo del lavoro, la spesa pubblica e vivere condizioni di maggiore polarizzazione delle ricchezze.
Per noi a quel punto si può anche rompere con l’Europa. Rompere, però, non vuol dire assumere una visione nazionalista, noi siamo internazionalisti, vogliamo essere in connessione con altri paesi europei. L’Europa per noi è un’idea bellissima. Immaginiamo un’Europa intanto euro-mediterranea, abbracciando i paesi del Nord Africa con cui abbiamo tante relazioni culturali ed economiche; e poi un’Europa che metta al centro i bisogni dei popoli, delle persone che lavorano, dei disoccupati, dei pensionati, e non quelli di finanza e banche. Quando ci chiedono «voi siete antieuropeisti?», noi rispondiamo «a noi l’Europa piace, non ci piace “questa” Europa».
Podemos per noi è stata una grande ispirazione: nasce sulla scorta di un grande movimento contro l’austerity (movimento che in Italia non c’è stato, penso anche perché i 5 Stelle hanno incanalato buona parte del dissenso e del malumore). Vanno nella direzione giusta perché rinnovano i linguaggi della sinistra, senza dimenticare le proprie radici e proponendo soprattutto, come noi, una “vocazione maggioritaria” nel senso di esprimere gli interessi della maggioranza della popolazione.
Per quanto riguarda Diem e Varufakis, mi sembra interessante l’idea di un progetto europeo, ma che prevedano una strada troppo morbida. Mi sembra di capire, ma si tratta di un processo in corso, che non prevedendo un “piano B”, quello dell’uscita, finiscano per avere una proposta monca. Devi darti la possibilità, anche solo come opzione, di poter rompere l’Unione Europea.

Per chiudere, magari non ci state pensando in questo momento, dove va Potere al Popolo dopo le elezioni? È già previsto un appuntamento post-elettorale? State pensando a un congresso fondativo, in cui le organizzazioni pre-esistenti si sciolgano? In una recente iniziativa al Csa Astra a Roma il sindaco di Napoli Luigi De Magistris – che ha espresso parole di favore nei vostri confronti – ha annunciato un congresso costituente per maggio 2018, parlando di processo federativo aperto anche a Potere al Popolo. Sarete della partita? Come si conciliano questi due percorsi?
Questa è una proposta di De Magistris che, solo per chiarire, non ha mai fatto dichiarazioni di voto, ma ha sempre detto cose lusinghiere su Potere al Popolo. Per noi è un interlocutore molto importante. La questione della rappresentanza per noi si configura essenzialmente come uno strumento: non è un caso che molti di noi non si sono mai avvicinati alle elezioni, né come candidati né come elettori. Io, ad esempio, non votavo. Mi hanno anche detto di non dirlo, ma io lo dico lo stesso, perché attrarre l’area del non voto è un punto qualificante, che dà senso al nostro percorso.
Dopo le elezioni abbiamo in mente di fare un’assemblea di valutazione nella seconda metà di marzo. Pensiamo soprattutto al dopo, perché siamo partiti con l’idea di fare rete tra le realtà di lotta già esistenti e aggregarne altre insieme a tanti singoli: ricostruire da zero un tessuto solidale che si riconosce nei valori della sinistra. Per questo le elezioni sono un passaggio importante, se riusciremo ad avere rappresentanza sarà uno strumento utile, ma per noi quello che conta è il radicamento e le lotte nei territori. Mentre senza rappresentanza si può far fatica ma si può continuare a lottare, senza federazione delle lotte la rappresentanza serve a poco. In circa 150 città le assemblee territoriali stanno già lavorando in una prospettiva di prosecuzione di questa esperienza. Per noi il nucleo è quello, abbiamo bisogno delle valutazioni di metà marzo e abbiamo bisogno di approfondire molte tematiche: questo approfondimento è fondamentale perché il nostro è un progetto nato rapidamente. Insomma per quanto ci riguarda, le elezioni saranno solo una tappa e uno strumento, per quanto fondamentali, di un processo a cui vogliamo dare continuità.

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